“Sinergia” è una delle parole chiave alla base di S Company. Ma come si intersecano su un palco ricerca introspettiva, esperienze personali e danza?
Tutte le opere che “esploriamo” raccontano piccoli pezzi di noi: non solo miei come coreografo ma anche dei danzatori che lavorano con me. Il fatto di raccontare un pezzo di realtà all’interno di uno spettacolo fa parte del nostro processo creativo. Il tema che ci interessa di più è infatti quello dell’identità, perché è ciò che ci mette in relazione con la vita, con la morale e con l’etica. L’intervento dei danzatori diventa allora fondamentale: la loro personalità, il loro modo di interpretare sono il valore più grande nello sviluppo di uno spettacolo. Per questo lavoriamo sempre in sinergia in modo tale che il lavoro nasca da quelle che sono le esperienze di vita di ognuno. In Whoman? questo lavoro di ricerca introspettivo è stato molto presente, abbiamo lavorato molto per sperimentazioni e i danzatori hanno quindi ispirato, suggerito, creato intere parti dello spettacolo.
In Whoman? una delle ultime frasi che si percepiscono in platea è «education is the only solution». Credi che la danza possa rappresentare uno strumento educativo capace di affrontare alcune questioni cardine del nostro presente come l’uguaglianza tra i sessi?
Quella frase, presa da un discorso più ampio di Malala Yousafzai [attivista pakistana e premio Nobel per la pace ndr] per noi è molto significativa perché intende l’educazione come strumento di conoscenza. L’idea di educazione non è riferita solo all’educazione in sé per sé quanto più all’essere informati, al conoscere le varie sfaccettature della realtà e della vita. Lo riteniamo quindi un finale particolarmente adatto per la “sensibilità” del nostro lavoro. Personalmente credo che la danza sia una delle poche discipline che può dimostrare come il maschile e il femminile possano coesistere armonicamente in uno stesso corpo. Di questo ne sono assolutamente convinto.
Nei vostri lavori alcune gestualità si accompagnano a un apparato segnico molto definito: da quali ricerche, emotive o corporee nasce questa esigenza?
In realtà sia i segni che i gesti che utilizziamo sono tutti molto narrativi. Quando lavoriamo sulla coreografia abbiamo infatti sempre dei riferimenti precisi a cui ci rifacciamo. È attraverso il segno che riusciamo a creare quel significato che vogliamo lasciare al pubblico. Ogni volta che scegliamo un gesto piuttosto che un altro è sempre perché in quel gesto vediamo la possibilità di raccontare qualcosa che va oltre alla semplice coreografia, e tale processo è appunto uno dei punti saldi di S Dance Company.
Sin «indaga il desideri di conoscersi e riconoscersi come unico corpo», eppure l’opera si chiude con un distacco tra i due protagonisti. Come si spiega questa scelta?
Abbiamo pensato a Sin nella sua accezione spagnola, ossia senza, e non a quella inglese in cui si tradurrebbe con peccato. Ci siamo perciò concentrati sul togliere: giocando con questa parola abbiamo dato forza all’atto di perdere ed eliminare, da qui è nato lo spettacolo. Volevamo raccontare in maniera più veritiera possibile un rapporto di coppia, con i suoi momenti piacevoli e con quelli meno piacevoli. Il tentativo del lavoro è quello di liberare i corpi dal senso di appartenenza, affermando che queste dinamiche avvengono in ogni tipo di coppia. Il finale, ci è piaciuto lasciarlo aperto, con i danzatori che si ritrovano nella stessa posizione di partenza. Volevamo lasciare che lo spettatore si chiedesse se i due protagonisti avessero immaginato la loro storia, oppure se fosse stata un desiderio inespresso, o, ancora, se semplicemente fosse stato un rapporto che si è consumato e ha lasciato gli amanti come due estranei.
Milena Borgonovo
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview