Che cosa sono il delirio e l’alchimia di cui ci racconti nelle tue coreografie?
Il delirio è lo stato in cui si rischia di precipitare quando siamo assillati da quelle domande che un po’a tutti capita di porsi: “Perché esisto?”, “Perché sono proprio io e non un altro?”. Così capita anche al ragazzo protagonista di Delirium, durante una normale serata tra amici. Nel metterlo in scena mi sono chiesto: come fa a impazzire una persona? Forse si tratta semplicemente di “assenza di ragione”, viene a mancare ciò che consente di tenere sotto controllo i pensieri che si affollano nella testa. Se i pensieri riescono a uccidere la ragione, restano soltanto gli stati emotivi negativi: la paura, l’ansia, la rabbia e infine il vuoto, la solitudine. E, dopo il vuoto, c’è solo la liberazione o la pazzia più totale. L’alchimia invece è il feeling immediato che due persone avvertono tra loro, al primo incontro. Non volevo raccontare un grande amore romantico, ma qualcosa di più quotidiano: un semplice sorriso, un incontro casuale. L’amore è sentirsi a proprio agio, essere se stessi con un’altra persona. I sei personaggi di Alchimia sono ragazzi che si preparano ad affrontare l’appuntamento che un’agenzia di incontri ha combinato per loro. Ma nel corso dell’incontro le coppie si fondono e ricompongono da sé, del tutto istintivamente, per poi vivere ciascuna il proprio momento di serenità.
Perché hai scelto di focalizzarti sulla rappresentazione degli stati d’animo?
Viviamo in una società in cui l’estetica ci perseguita. Siamo di continuo sottoposti a immagini di ciò che deve essere “il bello”, immagini che ci distraggono dalla ricerca di una nostra propria identità. Ho voluto che i ballerini provassero emozioni forti, personali. Ho pensato fosse importante cercare di riportare un po’ di umanità, perché in fondo è quello che siamo: semplicemente esseri umani.
In cosa differisce il tuo rapporto con la danza contemporanea rispetto a quello che hai con la danza classica?
La danza classica è la ricerca della perfezione. L’estetica gioca un ruolo importante e la ricerca del ballerino si concentra sulle linee, sul virtuosismo tecnico. Ma non si tratta solo di questo: c’è anche una dimensione recitativa dove trovano spazio l’espressività e la comunicazione con il pubblico. È vero che la classica è fissata in schemi definiti, ma la sua tradizione non solo rappresenta un valore culturale imprescindibile, ma è anche il mezzo attraverso il quale riesce in un certo senso ad evolvere. Al contrario, la danza contemporanea è il regno della libertà, in cui a ogni danzatore è consentito di essere semplicemente se stesso. Ciò che conta è la ‘trasfusione’ di emozioni dal palco alla platea.
Lo spettacolo si chiuderà con un tuo assolo. Che cosa provi quando sei da solo sul palco?
Mi diverto. Ho voluto fare questo mestiere perché adoro profondamente la musica e amo ballare. Il Solo è la prima coreografia che ho montato. Ho fatto un lavoro su me stesso, una ricerca sul movimento. Ho scelto un brano di Vivaldi, compositore che amo, e ho semplicemente cercato di esprimere le emozioni che quella musica mi dava. Al pubblico che mi guarda cerco di trasmettere le stesse sensazioni che provo io stesso.
Chiara Casiraghi
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MilanOltreView