Unknown Woman, in scena a MilanOltre per i 25 anni di Spellbound Contemporary Ballet, racconta il suo rapporto di coreografo con la danzatrice Maria Cossu. Come nasce l’urgenza di portare un lavoro tanto personale sul palco?
È nato come una specie di tributo “riflessivo” a una persona che è praticamente cresciuta nella nostra compagnia. È un piccolo quadro di quindici minuti in cui ho cercato di rendere questo percorso pazzesco, pieno di colori, dinamiche e sfumature diverse, tenendo conto anche del rapporto personale che, inevitabilmente, si costruisce in una collaborazione di tanti anni. È un ritratto così intimo che il rischio è forse quello di risultare un filo incomprensibile: c’è un codice molto riconoscibile per me e per lei, che però non è immediato per lo spettatore. Una biografia danzata che racconta tutta una serie di fasi: traumi emotivi e problematiche personali che sono state filtrate dal lavoro sul palco. Il titolo, “Donna sconosciuta”, si deve al fatto che Maria è sempre stata misteriosissima per tanti aspetti, sia per me sia, in un certo senso, anche per sé stessa. È un tributo che cerca di indagare il mistero di una donna, un’artista straordinaria che a 40 anni combatte col proprio corpo che cambia e balla come una diciottenne.
I lavori della vostra compagnia hanno un respiro internazionale: da anni collaborate con realtà straniere e portate i vostri spettacoli fuori dall’Italia. Quanto cambia all’estero il riscontro del pubblico a un lavoro di danza contemporanea?
La differenza purtroppo è netta. All’estero i processi culturali sono molto diversi e i progetti di sensibilizzazione all’arte sono molto più sviluppati, a differenza di ciò che accade da noi. Nel nostro paese purtroppo la danza contemporanea è sempre rimasta in una nicchia. Intendiamoci: ci sono progetti molto validi anche in Italia, movimenti e persone all’avanguardia – e MilanOltre ne è un esempio con la sua filosofia e la sua volontà illuminate – ma sono una minoranza ristretta. Fuori dai confini nazionali le cose sono diverse: per fare un esempio, la città più piccola della Germania ha comunque un teatro e, in generale, all’estero il linguaggio contemporaneo viene percepito in maniera molto più diretta, mentre in Italia il pubblico predilige il balletto classico, o spettacoli meno impegnativi, come quelli dei comici. All’estero, dovunque vai, spesso ottieni un riscontro istantaneo: se fai una settimana di repliche è tutto esaurito, perché la gente ha un interesse tangibile. Per questo motivo ci sono state stagioni in cui il 70% del nostro tour si è svolto all’estero.
Avete sempre avuto questa vocazione internazionale?
La volontà di allargare i nostri orizzonti fuori dalla penisola è maturata insieme a Valentina Marini [direttrice generale di Spellbound Contemporary Ballet ndr.]. Io ho vissuto per anni all’estero, a New York, che allora era il centro della danza, Londra, Parigi. Volevo assolutamente che la compagnia fosse internazionale, e così Valentina. E infatti, all’inizio, in Italia non eravamo molto popolari. Qui in Italia ci sentiamo a casa, sentiamo il calore del pubblico, ma fuori ci rendiamo realmente conto se uno spettacolo è buono.
E perchè allora radicarsi a Roma?
Io da tanti anni vorrei andarmene. In Italia mi piacerebbe vivere a Milano, ma se davvero potessi scegliere, andrei all’estero. Sono spesso a fare lezioni in giro per l’Europa come guest per i teatri. Il problema è che spostarsi in un’altra nazione vuol dire entrare in competizione con chi già è nato e cresciuto sul posto e, oltretutto, da straniero diventerebbe molto più difficile accedere ai finanziamenti. Obiettivo è allora lavorare qui e cercare di avere sempre più tour che circolino “fuori”.
Arianna Granello
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview