Uno dei temi cardine di Come le ali è la simbiosi e, più in generale, il diventare un unico organismo biologico. Cosa significa questo per i danzatori e come si traduce nello spettacolo?
In un gruppo parlare di “simbiosi” significa cercare in ogni istante un’attenzione totale: essere ‘presenti’ in ogni parte del proprio corpo e coscienti degli altri e dell’ambiente da cui si è circondati. Quando si danza non lo si fa per se stessi, bisogna allora trovare una direzione comune e ciò si può raggiungere solo attraverso un elevato livello di concentrazione. La danza è un lavoro sulla metafora e quella della simbiosi in fondo è la “metafora della vita”, che allude alla condivisione, alle relazioni, ai rapporti. In Come le ali la simbiosi si può rintracciare nel “sincronismo”, l’andare all’unisono, come un paio di ali, e nella devozione dei danzatori, che, attraverso il loro mettersi a disposizione, sono, appunto, “leali” tra di loro e verso il pubblico.

Corpo a corpo e Come le ali sono due meditazioni, cosa si intende con questo termine?
Utilizzo “meditazione” facendo riferimento al suo senso etimologico, ovvero curare, riflettere, considerare profondamente un problema. Nella danza, che è molto più ermetica del teatro di prosa, questo processo non è legato alla parola che viene comunicata all’intelletto, deve invece passare dal cuore. La differenza è sottile, ma fondamentale. Il pubblico ha la possibilità di assorbire, e quindi meglio apprezzare, il linguaggio di un artista solo con il tempo. Penso quindi che per esserne pervasi sia necessario concedersi la possibilità di conoscere questo linguaggio più a fondo, non fermandosi alla sensazione tipicamente istintiva del “primo incontro”.

Cos’è più necessario sul palco un’abilità fisica o un’intelligenza corporea?
Spesso si è portati a pensare che la danza sia un’attività meramente corporea, eppure c’è una forte componente mentale, di riflessione. Per quanto riguarda il nostro lavoro ci sono tre parole cardine: onestà, autenticità e presenza. È un lavoro di svestimento, occorre spogliarsi di fronte al pubblico, per liberarsi del pudore, ossia tutto ciò che ci àncora al giudizio verso noi stessi e gli altri, per ricercare invece l’autenticità, una sincerità del corpo, una verità di fondo.

La vostra produzione è caratterizzata da un ampio repertorio, qual è la spinta creativa che si cela dietro a tutto questo?
A Catania c’è un detto: “Cu mancia fa muddichi”, chi mangia fa molliche. Tradotto: se non provi non sbagli. Ciò che mi sollecita al processo di creazione è la necessità di portare in luce un’ampiezza di immagini e una varietà visiva. C’è poi una motivazione di carattere più personale: mi annoio facilmente e mi piace mettermi in discussione, questo comporta il rischio di sbagliare, ma l’unico modo per non sbagliare sarebbe quello di non mettersi in gioco. Ovviamente si tratta di un mio pensiero, non lo considero una verità assoluta! Ma credo comunque che sia fondamentale avere una direzione verso cui tendere, verso cui puntare, talvolta anche sbagliando.

Giorgia Angioletti

(In copertina ph: Luca Di Bartolo)


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