«O mio corpo fai sempre di me un uomo che interroga». In occasione dell’incontro Around Excelsior hai usato questa citazione dello psichiatra e antropologo Frantz Fanon: qual è il nesso con il tuo lavoro?
La frase di Fanon, una delle voci più importanti del Novecento rispetto alle questioni postcoloniali, si collega ad Excelsior innanzitutto per questioni teoriche. Il suo libro, Pelle nera, maschere bianche [edito nel 1952 da Éditions du Seuil ndr.] ha nutrito il processo del nostro lavoro per la lettura e l’analisi del Gran ballo Excelsior, abbiamo infatti scelto di appoggiarci alle teorie post coloniali, di usarle come filtro, come lente, in un tentativo di ri-mediazione di quell’opera attraverso i linguaggi artistici della contemporaneità.
Quali erano le idee e principi dell’Europa del XIX secolo presenti nel balletto di Manzotti, che sono arrivati al giorno d’oggi?
La problematica definizione dei concetti di civiltà e civilizzazione, le narrazioni universaliste, il sentimento positivista, l’anacronistico desiderio di egemonia culturale e finanziaria, il rinnovato desiderio di autarchia, una impostazione culturale etnocentrica, fallocentrica e machista, sono solo alcune delle eredità problematiche che proprio a partire dal XIX secolo hanno forgiato la nostra presunta identità culturale. In particolare, nell’analisi del Gran ballo excelsior del 1881, ci è sembrato centrale soffermarci su una certa rappresentazione dell’“alterità”, incentrata su iconografie “razzializzate” e su una rappresentazione dell’altro “inferiorizzante” e stereotipata. Se poi osserviamo quest’opera come una sorta di manifesto programmatico di un certo pensiero, di una certa postura culturale, mentale e intellettuale, riconosciamo che quelle narrazioni sono ancora attive, oggi, in maniera eclatante: sono semplicemente aggiornate secondo codici, riferimenti e immaginari calati nel contesto attuale.
Anche l’idea di nazionalismo pensi sia rimasta uguale all’epoca?
Sì, c’è una fortissima continuità. La prima necessità, per l’Italia dell’epoca, era quella di costruire la propria identità nazionale, di inventare la propria tradizione “autoctona”, provando a mostrare virilmente i propri “muscoletti” al mondo. E tutto sommato oggi mi sembra che l’atteggiamento di chi nutre sentimenti nazionalisti e sovranisti in qualche modo si collochi esattamente lì, in quel solco. Quell’eredità è transitata fino ai nostri giorni e si è depositata prima di tutto nel linguaggio e nei suoi dispositivi di potere e di rappresentazione.
Cosa vorresti che lo spettatore cogliesse dal tuo spettacolo, quale feedback, quale immagine visiva?
Generalmente penso che un lavoro teatrale non sia riducibile a un (solo) messaggio o a una (sola) immagine. Detto questo, da un punto di vista scenico e compositivo cerco di operare in un’accumulazione di segni, proprio per lasciare che il “punctum” – per citare Roland Barthes –, il dettaglio che ti conquista sia in constante mutamento durante lo spettacolo. Come più volte mi è capitato di constatare con Viviana Gravano, che ha collaborato al progetto come consulente culturale, il nostro Excelsior, genera una specie di “effetto cipolla”, per cui chiunque può sfogliarne uno strato, nutrendosene, ed eventualmente andare più in profondità in base al proprio background. Non ho, dunque, una vera e propria preferenza, tuttavia voglio citare un pensiero che nello spettacolo fa capolino a un certo punto, e che suona come una sorta di premonizione. Sono le parole di Aimé Césaire: «J’entends la tempête», traducibili in “sento arrivare la tempesta”!
Greta Anastasio
(In copertina ph: Carolina Farina)
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview