MA
drammaturgia di Linda Dalisi
regia di Antonio Latella
visto al Piccolo Teatro di Milano_2-10 novembre 2016

#1. SCARPE
Al centro della scena, ai piedi di Candida Nieri, due enormi scarpe le impediscono di camminare. È una buffa croce quella destinata alla madre di PPP, un Cristo comunista e lottatore. Principale oggetto scenografico, ma anche costume dell’attrice, le gigantesche calzature sono punto focale dello spettacolo e indirizzano il taglio registico della piéce. L’impossibilità di movimento si rifrange infatti in un partitura verbale complessa che, attraverso un gioco di inquadrature solo pronunciate (“primo piano”, “mezza figura”), sostituisce il gesto del corpo con quello “immaginato” della camera. Tutta la vita e il dolore di una madre, che Pasolini aveva voluto nel ruolo di Maria nel Vangelo secondo Matteo, ma anche la grandezza di un figlio mai del tutto compreso dalla società del suo tempo, sono rappresentate da quel paio di scarpe ipertrofiche, strane, fuori misura. Il flusso di coscienza quasi del tutto statico della protagonista sembra ruotare attorno a un dubbio: riuscirà mai la madre a portare il peso di quella croce? La reazione comincia quando, con grande sforzo, i piedi battono a terra per scandire i colpi inferti dalle condanne subite dalle opere di Pasolini, elencate come sentenze in un tribunale. Ma la risposta arriva nel finale quando alle scarpe vecchie e giganti della madre vengono sostituite le piccole scarpette di un bambino (del suo PPP, di un erede?) che, illuminate dall’alto, prendono il centro della scena e danno la forza alla donna per un’ultima faticosa camminata. [C.L.]

#2. P.P.P.
P.P. Primo Piano su Pier Paolo. Ad indicare che il monologo diretto da Latella non è altro che un campo stretto, inquadratura modulare, “fotogrammica”, di Pasolini. Pasolini l’intellettuale, il santo omosessuale, l’uomo, MA, prima ancora che tutto questo, il figlio. Ed ecco allora che lo zoom può procedere: P.P.P. Da primo a primissimo piano. Dove quella ‘P’ aggiunta è il tentativo di un’ulteriore specifica, che scandagli il rapporto primario, vincolante, di Pasolini con la madre. Una MAdre che è (MA)donna, una madre che è musa, una madre che è punto fisso dalle solide basi: capitale geografica e cinematografica (MAmma Roma) del proprio esistere, del proprio esperire. MA (ancora MA!) anche origine del proprio soffrire: perché è “dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia”, diceva il poeta in una sua famosa supplica. Viceversa, nella drammaturgia di Linda Dalisi, l’angoscia, come la prospettiva, è ribaltata: non sarà più il figlio ma la madre a dover convivere con la propria dolorosa perdita e, in una lallazione di parole e dolore, ritrovare col proprio equilibrio, la forza di re-imparare a camminare. [C.R.]

#3. MEDEA
Madre, Mamma, Ma. La figura materna – presenza viva sulla scena, donna in carne ed ossa – viene costantemente ‘sovrascritta’ dall’immaginario letterario e filmico del figlio, che pare alterarne le caratteristiche fino ad operare una vera e propria trasfigurazione. Così, alla donna ferma ma dimessa che siede china sulla sedia, si sovrappone come un’interferenza la figura incandescente di Medea, la barbarica Maria Callas del lungometraggio pasoliniano del 1969. La protagonista sembra percepirsi in opposizione a quella truce madre del mito (“antica, regale, barbara. No! non sono io, lei era la Divina”), eppure ne incarna appieno l’archetipo: vittima dolente di ineluttabili dinamiche di potere maschili, depositaria di una sapienza perduta, emarginata da una società di cui sa rivelare tutte le dissonanze. Nella drammaturgia di Linda Dalisi, Susanna Colussi esce dal tempo e diventa modello antropologico, non diversamente da una figura del mito: e il suo dolore continua a bruciare, come il fuoco che alla fine del film inghiotte la casa regale di Giasone, e con essa tutto il vano operare dell’uomo. [M.G.]

#4. GABBIA
Il flusso di parole della madre prende corpo di fronte a un portale di luci: una griglia che sembra evocare la cella di una prigione, alla quale sono appoggiate e appese diverse lampade d’appartamento. Abat-jour, applique e lampadari diventano i fari che illuminano una confessione-processo. Inchiodata alle sue scarpe, Candida Nieri non guarda il pubblico ma resta di profilo, accovacciata e china di fronte a una parete di luci che evoca allo tesso tempo una prigione e un interno domestico. Analogamente a quanto fatto dal testo, questo grande oggetto, nella semplice scenografia pensata da Giuseppe Stellato, amplifica i significati. La sillaba MA si fa intercalare di un discorso che, per contrasti, evoca figure differenti: è suono primordiale e sillaba della prima parola pronunciata da un bambino; è congiunzione avversativa, che svolge la propria funzione legando proposizioni in qualche modo contrastanti; ma è, anche, suono di una litania cantata davanti alla Croce. Così, davanti a quella griglia che divide, Candida Nieri è metaforicamente la Madonna inginocchiata sotto alla Croce raccontata da Pasolini. Ma è anche madre in un interno domestico contadino, punteggiato da lampade d’appartamento. E, infine, madre di un “Cristo comunista” ripetutamente, come non si stanca di ricordare, processato, e di cui forse, oltre quella griglia che divide, può ancora intravedere una sagoma.  [F.S.]

 

Maddalena Giovannelli, Camilla Lietti, Corrado Rovida, Francesca Serrazanetti