0. Tutto parla di te (2012) è il film con cui Alina Marazzi è approdata al cinema di finzione. Ma il suo bagaglio di documentarista e di esploratrice di linguaggi diversi continua ad alimentare la sua ricerca: documentario, animazione, filmati d’archivio, fotografia trovano posto l’uno accanto all’altro nel film. La trama narrativa che genera di volta in volta questi frammenti eterogenei racconta i travagli della prima maternità di una giovane danzatrice (interpretata da Elena Radonicich). È questa l’occasione che provoca la più importante sfida formale del film: mettere a dialogo cinema e danza. Ed è questo il motivo per cui abbiamo parlato con Alina Marazzi per il decimo compleanno di Fattoria Vittadini, che ha dato i suoi danzatori e la sua vita vera in pasto alla cinepresa. La formula con cui la regista ha aperto la nostra conversazione, e con cui ha presentato l’aspirazione che l’ha spinta alla realizzazione della pellicola, è: «fissare la danza con le immagini in movimento». Già in queste poche parole, che intuitivamente rimescolano le coppie di senso attese (fissare-immagini; danza-movimento), si gioca la profondità del dialogo messo a punto. A differenza delle altre tessere formali che compongono il mosaico del film, la presenza della danza è implicata dal racconto, e alla vitalità della narrazione contribuisce dall’interno. Ma quali sono gli ingranaggi che muovono un’interazione tanto osmotica? Lo abbiamo indagato insieme alla regista lungo tre linee: rapporto finzione/realtà, spazio, tempo.
1. «Ho scelto Fattoria Vittadini per la sua natura collettiva ed eterogenea, che riflette bene l’articolazione composita del film. Probabilmente per questo è stato facile integrare Elena (che non è una danzatrice professionista) nell’allestimento delle scene di danza. Avremmo voluto lavorare insieme all’elaborazione di coreografie ad hoc per il film, ma i tempi della produzione ci hanno imposto alla fine di scegliere alcuni estratti dal repertorio di Fattoria Vittadini». Eppure, proprio queste contingenze concrete hanno dettato soluzioni significative per l’accostamento dei codici: l’attrice si è calata, quale nuovo elemento del gruppo, all’interno di performance reali, e le scene ambientate in sala-prove restituiscono il lavoro quotidiano della compagnia. Il risultato: il frammento di un vero e proprio documentario sull’attività di Fattoria Vittadini è rimasto catturato sulla pellicola ed è diventato parte integrante della dimensione narrativa. Al tempo stesso, tra i performer ripresi dal documentario, si muove Emma, protagonista della storia: nel documentario si agita una cellula della finzione.
2. «So bene che assistere da spettatore al teatro-danza e alla danza, trovarsi in relazione con lo spettacolo nello spazio fisico, è un’esperienza, e che il cinema inevitabilmente restituisce un succedaneo appiattito di una simile modalità di fruizione, ma ho tentato di riempire questo iato scardinando le dimensioni spaziali delle due discipline». A controcanto delle sequenze girate in sala-prove, una suggestiva serie di scene vede Riccardo Olivier, danzatore, eseguire alcuni assoli di repertorio nel terrazzo di Emma: la danza, abbandonato il palcoscenico, irrompe negli spazi scenografici del film, in un luogo tanto centrale per il personaggio quanto può esserlo la sua propria casa. In questo scambio di luoghi e in questa spinta reciproca a uscire dai propri spazi, il film di Alina Marazzi ha molto da condividere con quello di un altro regista che ha a lungo lavorato sull’interazione fra i linguaggi, e che ha preceduto Tutto parla di te di un anno soltanto: Pina di Wim Wenders. Nel suo Alice nelle città (1973), un gioiello del cinema narrativo, Wenders riprendeva le strade di Wuppertal, immediatamente riconoscibili dalla celebre «ferrovia sospesa». Nel documentario del 2011, la medesima ambientazione urbana accoglie i danzatori della compagnia di Wuppertal e le coreografie della Bausch, sradicate dai teatri in cui siamo soliti immaginarle. «Il lavoro di Wenders su Pina Bausch mi ha conquistato perché riesce in un’operazione che credo molto difficile: portare un mondo autoreferenziale come quello della danza fuori dal suo luogo d’élite. Finalmente un’arte così potenzialmente fertile ha superato la cerchia ristretta dei suoi esperti e appassionati, e ha trovato via di accesso al più vasto pubblico del cinema. Anche io faccio cinema, anche io amo essere sollecitata dalla danza: per questo voglio condividere con quante più persone possibile gli stimoli che sa trasmettere alle discipline più disparate».
3. Opera cinematografica e performance hanno vita in due dimensioni temporali diverse: la prima è fissata per sempre e può essere riguardata più volte, l’esperienza della performance unica è irripetibile. Se il documentario è il tentativo di fermare con la cinepresa l’istante della realtà, non stupisce che sia una regista come Alina Marazzi a intraprende lo sforzo di trasferire sulla pellicola il qui e ora dell’evento. La danza, amalgamata nella storia di Emma, viene apparentemente assorbita nella linearità temporale del dispositivo narrativo; eppure, gli indugi della camera sulle coreografie di Fattoria Vittadini, con il contributo delle sequenze in claymation, delle fotografie interpolate ex abrupto, tuffano continuamente lo spettatore in istanti di sospensione: improvvisamente ci si trova fuori dal tempio, come immersi nella contemplazione di un dettaglio eterno. Il film, del resto, «è un tentativo di mettere in discussione il cinema di finzione: la giustapposizione di schegge che parlano linguaggi altri mette in crisi la verosimiglianza del racconto».
Nicola Fogazzi