Eduardo Scarpetta ride, ride irrefrenabilmente, mentre con la sua famiglia assiste a Roma a una rappresentazione de La figlia di Iorio. Gli abiti preraffaeliti delle attrici sul palco cominciano ad alternarsi ai truccatissimi volti partenopei di un altro spettacolo, quello del tutto immaginario ma già vivido nella mente di Scarpetta. È qui, in questa velocissima sovrapposizione tra ciò che è realmente in scena e ciò che ancora non lo è, mentre le rocce e i boschi abruzzesi cominciano a confondersi con lignei interni napoletani, che decolla Qui rido io, il film presentato da Mario Martone alla 78^ Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia. Dedicato all’attore e commediografo Eduardo Scarpetta, il più importante nome del teatro napoletano tra Otto e Novecento nonché padre dei tre fratelli De Filippo (figli tuttavia mai riconosciuti), Qui rido io è la storia dell’intera famiglia Scarpetta – dell’intera compagnia Scarpetta. 

Siamo tra il 1904 e il 1908, gli anni del lungo processo in cui il commediografo napoletano fu accusato di plagio per aver realizzato una parodia del dramma dannunziano. Scarpetta era allora all’apice del successo. La sua maschera, Felice Sciosciammocca, aveva addirittura scalzato Pulcinella dai palchi. Denaro e fama avevano consentito alla famiglia l’acquisto di un palazzo nel quartiere di Chiaia e di una grande villa al Vomero, sulla cui facciata era stata fatta scrivere proprio la frase che oggi dà il titolo al film. 

Ai due ricchi ambienti casalinghi Martone ne aggiunge un terzo: naturalmente, il teatro. È tra questi tre interni che il regista fa ruotare la pellicola, dando invece pochissimo spazio al paesaggio e alla città: una rapida inquadratura delle scale di Chiaia, Scarpetta su un mare di luce inquadrato di spalle accanto a Castel dell’Ovo, e pochissimi istanti sulla folla in coda al botteghino o radunata fuori dall’aula del processo. Per il resto, lo “spettacolo” è tutto racchiuso tra pareti, è tutta una messinscena in cui il rito quotidiano della vestizione non è poi così tanto diverso dai gesti che un attore compie in camerino, prima del chi-è-di-scena. Qui rido io vive della sovrapposizione tra la famiglia e la compagnia teatrale, tra le quinte e la sala da pranzo, tra le complicate relazioni che legano i personaggi delle commedie di Scarpetta e quelle ancor più intricate all’interno della sua stessa casa: Scarpetta è padre di troppi fratelli, nati da madri diverse e tutte tra loro imparentate. Se è probabilmente esagerato dire che tra questi nuclei separati ma annodati c’è armonia, è forse giusto dire, invece, che c’è un’accettazione diffusa, tanto della famiglia allargata quanto del destino di ognuno, della parte che ognuno avrà, sul palco e nella vita. Mentre in casa giungono le novità portate dall’improvvisa ricchezza – dalla servitù che lavora nelle cucine ai nuovi lussi, come il frigidaire in arrivo dalla Francia – ogni figlio, legittimo e non, si prepara a suo modo, con più o meno serenità, al palco su cui deve e dovrà salire.

C’è una trama specifica: quella che ruota intorno allo scontro con la claque napoletana di D’Annunzio. Non solo la prima del Figlio di Iorio al Mercadante di Napoli fu bruscamente interrotta, gettando in un primo momento di crisi uno Scarpetta del tutto disabituato al fallimento; ci fu anche un processo in aula: fu il primo in Italia dedicato al diritto d’autore, e anche per questo fu così altisonante. I più importanti nomi della letteratura teatrale di allora, da Salvatore di Giacomo a Ernesto Murolo, intervennero in tribunale contro Scarpetta, che ebbe invece un fondamentale aiuto retorico e contenutistico da Benedetto Croce: occorreva, manco a dirlo, che la difesa puntasse tutto sulla differenza di spirito tra parodia e contraffazione. Per inciso, con questa scena Toni Servillo arriva alla lode, quando Scarpetta affonda nel silenzio sotto il peso delle parole di Croce: la chiave perché vinca il processo sembra solo l’ammissione della propria piccolezza (un «fiammifero») di fronte alla «folgore» dannunziana. 

Accanto allo svolgimento dei fatti, però, rimangono ben in mente anche alcuni piccoli, preziosi momenti: quando è ora di fare le porzioni di spaghetti in una tavola di quindici persone, e Scarpetta è guidato dall’umore più che dall’equità tra i piatti; quando la moglie Rosa storpia il nome del Vate in un geniale “Don Nunzio”; quando Scarpetta si figura il proprio volto morto sotto la maschera di Pulcinella; quando D’Annunzio cerca senza successo di leggere il napoletano (e anche noi, non napoletani che in sala arranchiamo dietro ai sottotitoli in italiano, ci sentiamo un po’ presi in giro); o ancora, quando le comparse che lavorano in teatro accanto alla compagnia lamentano le proprie condizioni di lavoro (facile, credere che la vita dell’attore sia bellissima, quando si è protagonisti). Sono piccole perle – e quante altre se ne potrebbero ricordare – incastonate in una sceneggiatura solida e ricercata, ancora una volta a doppia firma con Ippolita di Majo: i titoli di coda ci dicono che la scelta delle musiche, a cura di Martone stesso, è stata un «viaggio sentimentale» (come smentirlo?), ma verrebbe da estendere il virgolettato a tutto il film.

Qui rido io è, infine, il viaggio in una Napoli in cui alla domanda «Com’è la sala stasera?» si poteva rispondere «Come sempre: piena». Eppure, il teatro doveva cominciare a guardarsi le spalle (e Scarpetta lo stava capendo): come ci ricorda già la prima sequenza in bianco e nero sul lungomare di Napoli, firmata dai Lumière, il cinematografo si faceva avanti sgomitando. Più di cent’anni dopo, a Martone riesce il contrappasso: far rientrare il teatro dalla finestra.

Virginia Magnaghi

QUI RIDO IO
regia Mario Martone
sceneggiatura Ippolita di Majo, Mario Martone
con Toni Servillo, Maria Nazionale, Cristiana Dell’Anna, Antonia Truppo, Eduardo Scarpetta, Roberto De Francesco, Lino Musella, Paolo Pierobon, Gianfelice Imparato, Iaia Forte, Roberto Caccioppoli, Greta Esposito, Nello Mascia, Gigio Morra