Ci sono film per i quali può valere la pena pagare il biglietto due volte. Loro, dedicato alla mitologia su e intorno a Silvio Berlusconi, è uno di questi. Chi non ha amato l’ennesima regia estetizzante di Paolo Sorrentino non scuota la testa: sono le reazioni in platea a meritare un’attenzione particolare. Le battute sopra le righe di Berlusconi/Servillo (una su tutte: le condoglianze portate dal Presidente alla “cognata” della pecora morta nella prima scena del film) strappano agli spettatori, quasi loro malgrado, qualche breve risata. Ma il riso pare gelarsi sulle loro labbra, e d’improvviso subentra il silenzio: il pentimento di aver riso a una boutade dell’odiato premier? Il timore di risultare inconsapevolmente sedotti?
Sugli ingranaggi ambigui della risata ha ragionato, nella sua ultima produzione, Massimiliano Civica: lo spettacolo Belve, prodotto dal Metastasio di Prato, si definisce fin dal sottotitolo una “farsa”. Civica, appena ricevuti due significativi riconoscimenti (Ubu 2017 e Hystrio 2018), decide di mettersi in gioco e di avventurarsi in un territorio ad alto rischio: quello del comico. Non solo perché, come si precisa anche nelle note di regia, è un genere che si misura quasi costitutivamente con la possibilità del fallimento; ma anche perché è oggetto di striscianti diffidenze e inconsci pregiudizi. Diffusa – anche se raramente dichiarata apertis verbis – è la percezione del comico come genere basso e popolare, volto innanzitutto all’intrattenimento, in opposizione a poche forme di raffinata comicità. Risata crassa e humor intelligente si fondono di rado, e si contano sulle dita della mano gli autori (tra cinema, serie e teatro) capaci di conquistare il botteghino e allo stesso tempo di eludere gli snobismi d’intelletto.
In questa crepa si insinua con intelligenza Massimiliano Civica affidandosi, come nel recente Un quaderno per l’inverno, alla scrittura di Armando Pirozzi. All’essenzialità espressiva del Quaderno si sostituisce qui la scelta di un linguaggio – drammaturgico, scenico, attorale – marcato e sovraccarico, che sgombra il campo fin dai primi minuti dello spettacolo da qualunque aspettativa di realismo. Al centro della scena un tavolo imbandito per una cena che non arriverà al dessert: i due padroni di casa (Monica Demuru e Aldo Ottobrini) hanno intenzione di uccidere i due invitati (Alessandra De Santis e Salvatore Caruso), per questioni di soldi e di potere. Ma il campanello suona di continuo, si susseguono interruzioni à la Buñuel, e non sarà facile per gli aspiranti assassini portare a termine il proprio proposito.
La partitura attorale è uno spartito per orchestra, con tempi di insieme scanditi chirurgicamente dalla regia: non c’è spazio per performance da primo attore, né per libere improvvisazioni acchiappa-pubblico. È in particolare Monica Demuru, come una silente direttrice d’orchestra, a dettare quel ritmo in controtempo che contraddistingue l’intero spettacolo. Ma anche gli interpreti con i ruoli più dichiaratamente comici (i cangianti Alberto Astorri e Vincenzo Nemolato) sanno stare al gioco, tirando le redini alle battute un istante prima di squarciare l’atmosfera sospesa e straniata. E se i tempi dello spettacolo ricordano certo Roy Andersson (vedi alla voce Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, vincitore del Leone d’Oro a Venezia nel 2014), l’iconografia va invece tutta nella direzione del grottesco: gli attori giocano sulla fissità marcata del volto – che pare di tanto in tanto trasformarsi in maschera – e congelano d’improvviso movimento e gestualità (direzione scelta anche da Toni Servillo per il suo Berlusconi). I meccanismi della risata vengono decostruiti e smontati, proprio nel momento in cui vengono riproposti, come se il “patto” del genere fosse costantemente messo in questione e rinegoziato.
Non mancano tributi più o meno coperti alla storia del comico e anche il finale gioca con sapienza con gli ingredienti della tradizione, tra improbabili agnizioni, scioglimenti e perfino un trionfale lieto fine. I personaggi brindano perché tutto è andato bene, la famiglia è finalmente riunita e anche per gli spettatori sembrerebbe giunto il tempo di lasciarsi andare. Ma degli happy ending è meglio diffidare, lo sanno tutti: da Euripide, passando per il romanzo greco fino alle telenovela sudamericane. È così che Belve non concede nemmeno ora al suo pubblico la risata liberatoria delle farse di Dario Fo: quei personaggi, pronti a scordarsi di tutto e tutti per intascare eredità e guadagni, sono forse meno raggelanti di Silvio Berlusconi e Giampiero Tarantini?
Maddalena Giovannelli
Belve – una farsa
di Armando Pirozzi
regia di Massimiliano Civica
produzione Teatro Metastasio di Prato
Visto al Teatro Metastasio di Prato_17-22 aprile 2018