A maggio, proprio nel momento in cui le stagioni istituzionali arrivavano alle battute finali, a Milano si sono moltiplicate le occasioni per il teatro indipendente. Playfestival del Teatro Ringhiera ha offerto in palio alla compagnia vincitrice della rassegna un posto nella programmazione del Piccolo Teatro, mentre Tfaddal del Franco Parenti ha chiesto ad alcune delle più significative realtà emergenti di mettersi alla prova con studi sull’Amleto shakespeariano. In entrambe le esperienze, la selezione ha avuto un ruolo fondamentale: il Ringhiera si è fatto carico di una pre-selezione, mentre ha affidato a una doppia giuria (una popolare, e una seconda composta da esperti e critici) la valutazione degli spettacoli in cartellone del festival. Nel caso di Tfaddal sono state invece le tre curatrici (Claudia Cannella, Sara Chiappori, Natalia Di Iorio) a rivendicare la scelta e l’identificazione delle compagnie più interessanti e più adatte alla sfida.

Del tutto diversa, fin dai presupposti, è stata l’esperienza di Independent Theatre Festival (24-26 maggio 2013): nessuna selezione, nessun direttore artistico, nessun curatore, ma un gruppo di compagnie che si organizzano e si uniscono in modo spontaneo. Il logo scelto per il festival è, non a caso, un ratto con la bocca spalancata: come a dire che il teatro indipendente, proprio come i topi, a Milano esiste e agisce lontano dagli occhi dei più. La maratona si è svolta alla Fabbrica del Vapore e ha assunto i connotati di una vera e propria ricognizione delle compagnie e degli artisti indipendenti in scena a Milano: quattro sale, cinque ore di programmazione al giorno, oltre 50 spettacoli. Le performances – per la durata massima di venti minuti – iniziavano in contemporanea nelle quattro sale ad ogni mezz’ora, lasciando così la possibilità al pubblico di costruire un personale programma di visione. L’esperienza è stata sorprendente per molti aspetti. Primo tra tutti la significativa e non del tutto attesa affluenza di pubblico: appassionati, addetti ai lavori e artisti si sono ritrovati, per una volta, tutti presenti in un unico luogo, come per degli ‘Stati generali’ del teatro milanese. Ma IT è stato in grado di catalizzare l’attenzione anche di un pubblico più ampio, composto da amici, curiosi, abitanti della zona, giovani milanesi ansiosi di partecipare a un evento nuovo e ben comunicato; e in questo senso il largo piazzale della Fabbrica del Vapore, il bar e il dj set previsto per la tarda serata hanno favorito una felice dimensione sociale e collettiva. Il format della rassegna incoraggiava poi un tipo di fruizione inconsueta per un festival teatrale: la breve durata degli spettacoli – e il loro iniziare a ciclo continuo in luoghi diversi – creava nello spettatore la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di più simile a una Biennale d’arte, dove si entra e si esce da installazioni e padiglioni, si discute e si cammina, ci si ferma per un po’ a bere qualcosa. La qualità dell’offerta artistica – come naturalmente accade laddove non c’è alcuna selezione – era certo discontinua: accanto a gruppi maturi e già noti e ad alcune gradite sorprese, si sono esibite compagnie acerbe e artisti per i quali difficilmente si potrebbe usare la sfuggente categoria del professionismo. Ma accanto ai fisiologici inciampi di un’edizione zero (frequenti le lamentele di chi non riusciva ad entrare agli spettacoli, anche dopo una lunga coda) IT è riuscito in un obiettivo non semplice: la qualità del festival non coincideva, per lo spettatore, con la somma della qualità dei singoli spettacoli, ma si accresceva del valore aggiunto di assistere a un’esperienza collettiva coinvolgente e partecipata.
Maddalena Giovannelli

Abbiamo chiesto all’osservatorio critico del festival (Arianna Bianchi e Davide Carnevali) di condividere riflessioni e valutazioni sulla prima edizione di IT.

 

IT Festival, alla ricerca di un nuovo rapporto tra teatro e pubblico
di Davide Carnevali

L’alta affluenza di pubblico è stata la prima grande nota positiva di IT. Perché è proprio da qui, dal rapporto tra teatro e pubblico, che va ricostruito sistema teatrale italiano. Oggi il nostro problema maggiore è la frattura tra teatro è tessuto sociale, una frattura che, a differenza di altri paesi, appare da noi enorme. In Italia il teatro non è visto come una parte integrante della vita quotidiana; non è tra le prime opzioni considerate dal consumatore culturale nel momento in cui si chiede: “Cosa faccio stasera?”; conserva ancora un certo carattere elitista, tanto nella produzione artistica quanto nella politica dei prezzi, il che tende a creare soglie di sbarramento intellettuali ed economiche; genera poco dibattito o comunque i dibattiti che genera rare volte si inseriscono nel cuore dell’attualità del discorso sociopolitico.
Ciò si deve in parte una questione di tradizione e in parte a una cattiva abitudine. Il teatro non ha rivestito in Italia un ruolo importante nella formazione né della società civile (cosa che è avvenuta invece, ad esempio, in Germania o in Francia), né dello stato-nazione (un ruolo che semmai ha assunto, durante un certo periodo, l’opera lirica); né la gente si è mai sentita particolarmente predisposta ad andare a teatro, una forma artistica che viene vista più che altro come intellettualoide, poco comprensibile e un po’ noiosa.
La colpa di questi pregiudizi risiede un po’ dovunque: nel disinteresse da parte delle istituzioni a creare potenziali spettatori durante la formazione scolastica (le matinée sono generalmente poco interessanti e di qualità infima); nello scarso e mal gestito investimento di denaro pubblico; nel sempre più ridotto spazio concesso al teatro da parte dei mezzi di informazione e nella sempre più ridotta capacità della critica di divulgare una corretta informazione sul teatro; e spesso nella bassa qualità dell’offerta teatrale proposta da creatori e gestori.
Tutto ciò inevitabilmente influisce sulla percezione che lo spettatore ha del teatro, perché quello tra teatro e pubblico è un rapporto simbiotico: il pubblico deve essere interessato a quello che il teatro offre e il teatro deve offrire cose interessanti. Altrimenti la gente a teatro non ci va, e allora non avrebbe neanche più senso discutere sul ruolo che le istituzioni dovrebbero assumere rispetto a un settore culturale che non è più un servizio pubblico.

A IT invece la gente ci è andata, ha riempito gli spazi e ha dimostrato una gran voglia di conoscere il lavoro delle compagnie. E, cosa ancora più importante, questa gente non era solo “gente di teatro”, ma si costituiva anche di comuni cittadini milanesi. In questo hanno aiutato, io credo, un po’ di fattori.

La formula degli spettacoli in corso contemporaneamente in quattro diversi spazi può generare difficoltà alle compagnie per mantenere la tempistica di montaggio-presentazione-smontaggio e al pubblico per la pianificazione degli spostamenti; ciononostante si rivela utile per mantenere lo spettatore attivo. E spesso l’attività motoria all’esterno della sala si traduce in un’attività intellettuale all’interno: aver dovuto correre, sgomitare, aspettare, dà più valore al momento in cui ci si sistema su una sedia e si assume la visione dello spettacolo come frutto delle proprie fatiche. Inoltre il brulichio di persone da una parte all’altra del cortile della Fabbrica del Vapore dà realmente alla massa-pubblico l’aspetto di un organismo vivo, e lo spettatore che si muove favorisce l’intercambio continuo di informazione: ogni momento è utile per condividere pareri e impressioni con i colleghi spettatori, influendo sull’inconscio teatrale collettivo, che in fondo è l’anima di un festival.

La durata degli spettacoli è stato un altro elemento importante. Mantenere viva l’attenzione durante un’ora è già complicato per un frequent spectator, immaginatevi per uno spettatore non abituato al teatro (e che, in linea di principio, dovremmo convincere ad andare a teatro). Davanti a uno shot di venti minuti questo rischio non si corre, o si corre minimamente. Anzi, lo spettatore in molti casi usciva dalla sala con la voglia di aver visto di più, che è sempre cosa buona e per la compagnia e per il teatro in generale. Certo, per le compagnie che hanno scelto di presentare una parte di spettacolo già montato era impossibile comprimere il senso di un lavoro in così poco tempo, e bisogna riconoscere che una visione parziale può non rendere giustizia al tutto. Ma anche da qui si può ricavare un aspetto positivo: lo shot può funzionare come trailer e auspicabilmente lo spettatore incuriosito inizierà a interessarsi per il lavoro della compagnia, fino a decidere che forse varrà la pena andare una sera a teatro a vedersi lo spettacolo intero.

Il luogo scenico: ci si può lamentare della scarsa capienza delle sale e della scomodità delle sedie, ma continuo a pensare che quella adottata sia la formula migliore per questo tipo di eventi. Innanzitutto quello della capienza è un fattore relativo: se si è rivelata scarsa, è perché il pubblico l’ha resa scarsa. La verità è che una sala con questa conformazione genera un’atmosfera di intimità che è utile in molti sensi. Erano pochissimi gli spettacoli in cui la componente visuale aveva un peso determinante, la grande maggioranza delle compagnie puntava invece sulla prossimità del pubblico, vuoi per scelta estetica, vuoi per esigenza tecnica, vuoi per semplice abitudine a lavorare in spazi ridotti e con pochi mezzi; così che spesso la posizione migliore per fruire dello spettacolo era quella dello spettatore seduto per terra a mezzo metro dall’attore. Questo fattore della prossimità offre allo spettatore un tipo di fruizione ben diversa da quella che propone convenzionalmente il teatro ufficiale, che, dimenticandosi spesso che ogni proposta estetica è in se stessa una proposta di fruizione, tende a mettere nello stesso contenitore (la sala all’italiana o a visione frontale) ogni spettacolo, indistintamente.

Il prezzo, infine, che non è stato certo il fattore meno rilevante, anzi. La componente economica è fondamentale in ogni tipo di attività umana, anche in quella culturale: una cosa è affermare che la proposta estetica non deve dipendere dalla condizione economica, e un’altra – ben diversa e meno sensata – è affermare che non deve tenerne conto. Il fatto che i prezzi dei biglietti fossero così ridotti ha sicuramente influito sul successo di pubblico del festival, sarebbe assurdo negarlo. In parte perché, in epoca di crisi, per un consumatore di cultura è sempre positivo trovare un’attività che sia utile, piacevole, interessante e che costi poco. E in parte perché spesso lo spettatore a teatro paga un prezzo del biglietto relativamente alto ed esce poco soddisfatto del “prodotto” che ha comprato. Motivo per cui, molto banalmente, non tornerà a comprare quel prodotto – o, ancora peggio, quel tipo di prodotto – né lo consiglierà agli amici, né gli farà buona pubblicità. Con questo non voglio dire che il teatro sia per natura come qualsiasi altro bene di consumo; ma lo diviene quando il sistema di riferimento in cui viene inserito è quello economico. Detto ciò, è evidente che il rischio per lo spettatore di sentirsi deluso a IT era minimo, e l’aver evitato questa delusione è un fattore da non sottovalutare. Cinque euro è un prezzo più che simbolico, se la contropartita è costituita da duecento minuti di spettacolo. Ovviamente lo spettatore avrà trovato qualcosa che gli sarà piaciuta di più e qualcosa che gli sarà piaciuta di meno, ma non avrà mai avuto la sensazione di aver speso male i suoi soldi. Quindi uscirà dal festival soddisfatto e questa, ancora una volta, non può che essere un’ottima cosa per le compagnie e per il teatro in generale.

Non è tutto oro quel che luccica ma… luccica!
di Arianna Bianchi

Dare un giudizio complessivo circa la qualità degli artisti che si sono esibiti a IT Festival è davvero complesso, perché questi, in realtà, non hanno semplicemente svolto una performance, ma hanno partecipato alle diverse fasi di creazione dell’evento, ritrovandosi a rivestire mansioni e a gestire incombenze che col loro progetto artistico c’entravano poco o niente.
Questo è stato lo spirito con cui è nato IT, questo il suo segreto: agire insieme, suddividere il lavoro, decidere ogni segmento attraverso una consultazione plenaria, non interrompere mai il confronto, non fermarsi alle proprie esigenze, ma andare oltre, nella prospettiva di un orizzonte comune. Utopia? In parte sì. Basti pensare che, accanto alle belle parole che ho appena indicato, accanto ai bei concetti di solidarietà e fratellanza, non sono mancati scontri accesi, fraintendimenti, strilli, strepiti e forse persino qualche manrovescio.

È bene però affrontare il discorso circa la qualità della proposta artistica ricordando questo presupposto, perché, a mio giudizio, è un elemento che davvero ha spostato l’asse: non più una vetrina, un contenitore asettico, dove ciascuno può attingere secondo il proprio gusto, ma una struttura organica, quasi un sol corpo, generato dall’incontro sinergico di numerose personalità antitetiche. Analizzarle una per una è un’operazione ai limiti della fattibilità, sia per quanto riguarda i numeri (52 compagnie presenti, molte altre che sono rimaste fuori e che ci saranno alla prossima edizione), sia perché i diversi lavori difficilmente hanno mostrato dei punti in comune, delle categorie generalizzabili cui rifarsi: IT è stato il Festival delle singolarità, delle esperienze inedite, quasi epifaniche, che hanno brillato per un istante (o meglio, per venti minuti) e poi sono state riassorbite dalla macchina, dal contesto, e dagli innumerevoli aspetti altri di cui occuparsi.

Mi guardo bene dal dire che tutti i luccichii siano stati il segnale di lavori validi, o, per l’appunto, splendenti. Mi limito a segnalare un’effettiva difficoltà a tirare le somme, a proporre un bilancio soddisfacente circa un’esperienza frammentaria, che ha fatto proprio del frammento un punto di forza.
Malgrado questo, bisogna ammettere con franchezza che i lavori non sempre erano all’altezza delle aspettative e, anzi, spesso lasciavano lo spettatore con l’amaro in bocca. Infatti, accanto alle compagnie esperte, con alle spalle anni di rodaggio e di verifica col pubblico, vi erano molte realtà artistiche neonate, acerbe e sotto molti aspetti incerte, le cui traballanti proposte si avvicinavano più al mare magnum dell’amatoriale che al rigore del professionismo.
Nell’insieme, dunque, il problema della mancanza di direzione artistica, di qualcuno che valutasse e selezionasse i progetti, si è sentito. La sfida dell’oggi, l’obiettivo in vista della nuova edizione che ci sarà l’anno prossimo, consiste nell’individuare nuovi criteri di selezione che puntino più all’inclusione che all’esclusione e che, nello spirito che ho ricordato, aiutino le compagnie più bisognose a migliorarsi e a crescere.