di Frank Wedekind
regia di Claudio Autelli
visto all’Out Off di Milano_2-12 Maggio 2013

L’adolescenza come momento di accelerazione e cambiamento, come snodo destinato a incidere irreversibilmente sulla vita, passaggio sempre irrisolto con cui tornare a fare i conti. Il regista Claudio Autelli sembra avere con questo tema un particolare legame: raccontava riti di passaggio il bellissimo La licenza – articolato intorno a un metaforico banco di scuola – e esplorava l’amore il più recente Romeo e Giulietta. Non sorprende allora la scelta di Risveglio di primavera di Frank Wedekind, un testo scritto quando il Novecento bussava alle porte, che mette sotto la lente di ingrandimento il nascere dei turbamenti sessuali, la necessità di chiedere e scoprire, la voglia di scontrarsi con l’esistente.

Ma non c’è nulla di liberatorio nel percorso di formazione tracciato da Wedekind: come nel mito tragico greco, le conseguenze della conoscenza sono irrimediabili. Moritz, alle prese con dubbi e curiosità sul corpo femminile, si troverà a non saper gestire una bocciatura a scuola, primo bruciante fallimento che lo porterà a togliersi la vita (e viene in mente il Neil Perry dell’Attimo fuggente); Wendla vuole sapere come nascono i bambini, ma lo esperirà troppo presto su se stessa con fatali conseguenze; Melchior pagherà con il riformatorio le sorti dei due compagni.
Autelli tenta, con la sua regia, un cortocircuito tra testo e contesto: a raccontare le vicende sono sette neo-diplomati della scuola di teatro del Fraschini di Pavia. Sette interpreti, cioè, che compiono nel momento in cui vanno in scena un rito di passaggio speculare a quello dei personaggi: un affacciarsi al mondo professionale che fa da contrappunto all’approdo alla vita adulta. La regia sembra sottolineare questa sottile linea di discontinuità, che separa un prima e un dopo, il mondo degli adulti e quello degli adolescenti, i rassegnati e i curiosi, la società accettata e accettabile e i suoi oscuri margini: un sipario creato da una fitta maglia di fili percorre di continuo il palco, passando attraverso i corpi come un diaframma delicato ma visibile, che isola e distingue.

I corpi dei giovani attori restituiscono con credibilità la turbolenta energia vitale dei loro personaggi, proprio come accadeva in Hystory boys del Teatro dell’Elfo; ma qui la prova attorale non sempre è del tutto convincente e rischia di pregiudicare l’efficacia di alcuni passaggi, che non arrivano a incidere quanto potrebbero. Ce ne si accorge quando entra in scena Matilde Facheris (unica attrice di più lunga esperienza, insieme ad Alice Conti): qui i ritmi ingranano, affiorano le sfumature del testo ed emergono i chiaroscuri di una regia che ha, tra gli altri, il merito di aver riportato in cartellone un testo troppo poco noto.

Maddalena Giovannelli