Sono ormai alcuni anni che, intorno alla letteratura e all’arte, al cinema e al teatro, si continua a parlare di autobiografia, di rappresentazione della realtà e, come conseguenza più o meno diretta, di politica. C’è un’esigenza sempre più forte, da parte tanto degli artisti quanto del pubblico, di rispecchiarsi, di riconoscersi o di trovare un riflesso, nelle forme dell’arte e della cultura, alle proprie domande e insicurezze, e alle questioni più attuali e condivise. Intorno a questi temi si sono concentrati, con una continuità di rimandi e riflessioni significativa, i contenuti dei Quaderni del FIT, i volumi di approfondimento (consultabili a questo link) che dal 2016 curiamo – io e Maddalena Giovannelli in stretta collaborazione con Renato Palazzi – intorno alla programmazione del Festival Internazionale del Teatro di Lugano: realtà, politica, autobiografia e, per il 2019, potere.
A pochi giorni dalla chiusura del festival svizzero, un vero e proprio concentrato di sguardi e riflessioni su questi temi, nella stessa sera in cui a Roma si svolgeva l’Assemblea Politica di Milo Rau al Teatro Argentina, al Piccolo Teatro di Milano debuttava Ritorno a Reims di Thomas Ostermeier. Sembrano tutte manifestazioni di una stessa ondata che, dalle questioni individuali, passa a mettere a fuoco una dimensione collettiva.
La scelta di Ostermeier di mettere in scena Ritorno a Reims è in linea con un’attenzione che il direttore della Schaubühne di Berlino rivolge ormai da alcuni anni all’affermarsi di movimenti politici di estrema destra: dal Professor Bernhardi di Arthur Schnitzer (2016) arrivando a Italian Night di Ödön von Horváth (2018).
Ritorno a Reims (il debutto è del 2017) porta in scena l’omonimo libro del sociologo Didier Eribon, pubblicato nel 2009 e tradotto in italiano per Bompiani: è il racconto del ritorno alla casa natale, dopo anni di assenza e rifiuto, a seguito della morte del padre dell’autore. A partire dalla presa di coscienza della propria appartenenza di classe – dapprima messa da parte e forse rimossa, quando le “Riflessioni sulla questione gay” (1999), allora più urgenti, erano al centro dei suoi studi – Eribon riflette sulla deriva che ha portato la classe operaia a riconoscersi non più nella sinistra ma in una destra populista, razzista e omofoba.
Il pensiero di Eribon si colloca tra le riflessioni filosofiche di Pierre Bourdieu e Michel Foucault e le auto-narrazioni di Annie Ernaux e di Eduard Louis, suo allievo e poi collega (di Louis Ostermeier ha portato in scena, nel 2018, l’autobiografico History of Violence). Un cortocircuito di rimandi, in questi dati, configura una vera e propria comunità di intellettuali francesi che ha già fatto sentire la sua presenza anche sulla scena italiana: Eribon fa di continuo riferimento, nel suo testo, a Ernaux e al suo uso della scrittura per prendere coscienza del proprio passato; Louis dedica a Eribon il suo primo libro, Il caso Eddy Bellegueule, mentre il successivo Chi ha ucciso mio padre, dedicato al regista cinematografico Xavier Dolan, verrà portato in scena in Italia, nel 2020, da Deflorian/Tagliarini, che tanto hanno lavorato intorno ai testi di Ernaux.
Dal rapporto con i padri al confronto con le proprie origini, dall’identità sociale alla coscienza politica, dalla “vergogna” sessuale alla “vergogna” di classe, dall’autobiografia alla politica. Siamo, insomma, in quello che sembra essere il cuore dell’interesse e della riflessione artistico-culturale di questi anni.
Il Piccolo Teatro punta direttamente al centro di questo dibattito scegliendo di portare in Italia Ritorno a Reims: una produzione che nasce come progetto transnazionale, quindi adattabile, con cast locali, in diversi paesi (ha debuttato nel 2017 in Inghilterra e in Germania, nel 2018 in Francia, prima di arrivare nel 2019 alla produzione italiana). Nello spettacolo si riconosce una struttura “per parti” fin troppo rigida, in cui un ruolo chiave sembra avere la scelta degli interpreti. In una sala di registrazione un’attrice (Sonia Bergamasco) legge il testo di un video-documentario su Eribon seguendo le indicazioni del regista (Rosario Lisma), aiutato dal tecnico che gestisce lo studio di registrazione: quest’ultimo è interpretato da Tommy Kuti, italiano di seconda generazione, rapper autore del libro appena uscito per Rizzoli Ci rido sopra. Crescere con la pelle nera nell’Italia di Salvini (è la sua storia a emergere in modo più rilevante in questo adattamento).
Le prime parti dello spettacolo sono quelle in cui spicca la forza del testo: personale e politico si intersecano tanto nelle parole di Eribon lette da Sonia Bergamasco quanto nelle immagini del documentario. Il video, proiettato a grandi dimensioni sul fondo della scena, unisce il re-enactment del ritorno dell’autore nella sua città natale e dell’incontro con sua madre a documenti d’archivio della storia politica d’Europa, insieme a immagini iconiche di una condizione sociale: dal paesaggio urbano tipicamente industriale agli oggetti d’uso quotidiano nella casa di Reims, dai primi piani degli operai che lavorano in fabbrica alle vivide riprese di carni al macello, le immagini che richiamano l’appartenenza di classe della famiglia Eribon fanno da contrappunto a quelle della borghesia colta e progressista di cui Eribon, intellettuale e accademico di successo, si è trovato a fare parte. La regia di Ostermeier pone l’accento, attraverso le discussioni tra l’attrice e il regista, su alcuni aspetti chiave del testo di Eribon andando a fondo delle sue speculazioni teoriche. Più ci si allontana da questa struttura impeccabile, più la drammaturgia sembra voler cercare l’intesa con il pubblico nazionale, esplicitare le domande, diventare – come commenta Sonia al documentario di Rosario – didattica. Le incursioni autobiografiche esito del contributo degli attori si riducono a frammenti talvolta forzati, i rimandi alla storia politica nazionale al tentativo di riconciliare il pubblico con il proprio anti-berlusconismo, con un fin troppo didascalico “non siamo a teatro”.
È il livello autobiografico del “qui e ora” della scena – sottolineato nell’ultima parte dello spettacolo dalle riprese dei volti degli attori proiettati in diretta sul grande schermo, un formato a cui siamo stati abituati da molte regie degli ultimi anni, Milo Rau in primis – a non emergere particolarmente in questa versione italiana.
Forse più decisa doveva risultare, da questo punto di vista, la versione “originale” tedesca in cui Nina Hoss sviscerava il proprio rapporto con il padre, il politico Willi Hoss. Dal libro alla scena, Ritorno a Reims sembra voler restituire in modo chiaro una condivisione di esperienze che genera continue risonanze: non solo con le vicende personali degli attori, ma anche con un pubblico che, se non può non riconoscersi in ciò che osserva, è anche parte di quella stessa classe dirigente la cui indifferenza è chiamata in causa. Seguendo il ritorno a Reims di Eribon, gli interrogativi sull’oblio e sulla disuguaglianza superano le questioni legate alle singole minoranze, per toccare una questione sociale e politica che appartiene a tutti: si smaschera così quello che oggi è, forse, il più profondo e condiviso dei tabù.
Francesca Serrazanetti
Ritorno a Reims
dal libro di Didier Eribon (Editions Fayard, Parigi 2009 – traduzione italiana di Annalisa Romani, Bompiani 2017)
drammaturgia Florian Borchmeyer
traduzione Roberto Menin
regia Thomas Ostermeier
scene Nina Wetzel
light design Erich Schneider
sound design Jochen Jezussek
film Sébastien Dupouey, Thomas Ostermeier
camera Marcus Lenz, Sébastien Dupouey
suono (film) Peter Carstens
musiche Nils Ostendorf
con Sonia Bergamasco, Rosario Lisma, Tommy Kuti
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Fondazione Romaeuropa
in collaborazione con Schaubühne, Berlino
produzione prima versione Schaubühne Berlin con Manchester international Festival, HOME Manchester, Théâtre de la Ville de Paris
Foto © Masiar Pasquali
Visto al Piccolo Teatro Studio Melato _ 10 ottobre – 16 novembre 2019