L’epica antica, soprattutto omerica, gode di un crescente successo su larga scala non solo a teatro, ma in tutti i media (dal cinema alla tv, dal fumetto ai videogiochi) e anche in forme “derivate”, non direttamente legate all’originale. Svetta in classifica per popolarità l’Odissea: per averne conferma immediata basta digitare “Odissea” o “Ulisse” in qualsiasi lingua nei principali motori di ricerca e trovare milioni di occorrenze (si veda a riguardo M. Treu, “Ulysses’s Journey and Homer’s Odyssey, an eternal Return”, Journal of Comparative Literature and Aesthetics, 40. 2. 2017, pp.103-122) mentre, per rimanere sul territorio nazionale, si preannuncia grande successo per “Ulisse l’arte e il mito”, mostra appena inaugurata a Forlì (15 febbraio-21 giugno 2020).
Sui palcoscenici si registra un vero e proprio boom dagli anni Duemila (per un approfondimento si rimanda a Odissee sulla scena, un eterno ritorno, in Stratagemmi 9/ 2009): alle produzioni mainstream si contrappongono infatti molti monologhi di pari successo ispirati all’Odissea (l’Odissea Cancellata di Emilio Isgrò, 2004, l’Odiséa di Tonino Guerra recitata in romagnolo da Roberto Magnani del Teatro delle Albe, 2009), dalle popolari versioni di Corrado D’Elia al grande successo di Iliade. Mito e guerra (Mitmacher Teatro) che ha fatto il tutto esaurito dal 2016 per diverse stagioni al Piccolo di Milano (qui un approfondimento). Terza per popolarità in questa classifica, l’Eneide virgiliana ha afflitto con traduzioni obsolete e letture coatte milioni di studenti italiani prima di essere finalmente attualizzata in riscritture di vario genere: singoli episodi o canti sono stati trasposti ora in stile pop e trash (Troia’s Discount di Ricci/ Forte), ora in algidi mosaici di video e declamazione classica (il secondo canto in latino!) nell’ardita operazione tentata da Anagoor con Virgilio Brucia (la recensione).
Rispetto alle precedenti, due riscritture recenti sono accomunate dall’ambizione di trasporre in scena – con allusioni esplicite al presente – tutte e due le parti del poema: l’avventuroso viaggio di Enea e dei reduci troiani fino a Roma e l’impatto brutale con le ostili popolazioni del Lazio, due filoni che sottendono un evidente legame con le cronache recenti. I flussi migratori odierni e la difficile integrazione dei migranti nella realtà italiana forniscono spunti espliciti alla riscrittura di Olivier Kemeid, Il viaggio di Enea (2017), con Fausto Russo Alesi che fugge dalle bombe e dalle moderne guerre in cerca di una patria dove ricominciare, tra un campo di accoglienza e un lavoro in nero, col miraggio (futuro) di un permesso di soggiorno che aleggia sospeso in un finale irrisolto.
Diversamente punta sull’evocazione, sull’ellissi, sull’allusione, più che sui parallelismi diretti, la bella drammaturgia al femminile di Giovanna Scardoni in Eneide, Generazioni, in scena fino a pochi giorni fa al Piccolo Teatro Melato di Milano e prossimamente in tournée. Una scrittura che finalmente rende giustizia alle tre donne di Enea (Creusa, Didone, Lavinia) e ci fa comprendere, per una volta, il lato nascosto del poema e dello stesso protagonista: definito da Virgilio prima di tutto “profugo”, Enea ci appare più che mai incerto, indeciso, irrisolto, e proprio per questo più vicino a noi, più umano, finalmente libero dalle immagini stereotipe che ci hanno inculcato a scuola, col risultato di renderlo mortalmente noioso.
L’eroe virgiliano non è semplicementel’amato figlio di Venere e progenitore di Roma, come vorrebbe la propaganda; non l’immagine-santino di virtus e pietas, non il fulgido eroe senza macchia (tant’è che uccide Turno, nel finale, per mera vendetta, anziché risparmiarlo come pietà vorrebbe), non il marito che desidera Didone, né il figlio ideale o il padre amorevole che si augurano le altre due figure maschili del poema: Anchise e Ascanio Julo. Ed è proprio in questo rapporto dialettico tra padri e figli l’aspetto più originale e interessante della drammaturgia, da cui lo spettacolo prende il sottotitolo Generazioni. Stefano Scherini non si limita alla regia, ma lo troviamo in scena dove interpreta il vecchio Anchise e anche la sua ombra, che ha le voci e i volti dei Penati –gli antenati e dèi protettori della famiglia e dalla patria, cuciti letteralmente addosso al suo vestito. Nicola Ciaffoni interpreta il figlio Enea, costretto a caricarsi letteralmente sulle spalle l’ingombrante padre, che puntualmente gli ricorda il suo destino di fondare Roma, e lo conduce via da luoghi paradisiaci e donne accoglienti (Andromaca e Didone). La sua risposta obbediente è il tormentone «Sì papà», ripetuto via via in tono meno convinto e più impaziente, finché l’eroe si libererà della propria soggezione filiale in un intenso monologo. Qui finalmente si sfoga e parla di se stesso, perennemente esule, costretto a portare tutto (inclusa la terra per seppellire i morti) con sé, anzi dentro di sé, alla ricerca di un futuro che sembra un miraggio e si allontana più si procede, a tentoni, nel mare infinito. Altrettanto intenso il monologo di Didone, che pone i suoi sudditi, un tempo profughi dalla Fenicia, di fronte alla scelta che è anche nostra. Accogliere o respingere i profughi. Per poi offrire, perentoria, la propria risposta.
Nella seconda parte dello spettacolo il rapporto padre /figlio si mantiene, ma fa un salto di generazione: ora Scherini interpreta Enea, Ciaffoni suo figlio Ascanio, anch’egli cresciuto in guerra e alla ricerca di una pace futura. Il rapporto ben delineato tra le generazioni non solo è apprezzato dagli spettatori più esigenti e competenti (come gli psicologi che hanno organizzato l’incontro con la compagnia al Chiostro di Via Rovello, il 7 marzo 2020), ma diventa adattissimo anche per un pubblico di adulti e ragazzi (a buon diritto lo spettacolo rientra nella serie “A teatro in famiglia”). Tra questi, i primi possono riscoprire un classico del passato, e coglierne i riferimenti e gli echi, e i moniti per il presente; i secondi sono proiettati verso il futuro. Del resto tutta l’Eneide e il nostro rapporto con i classici in generale si può leggere in entrambi i sensi: verso il passato, come l’omaggio a una tradizione millenaria, e verso il futuro come anticipazione di quel che seguirà. La drammaturgia di Scardoni intreccia in continuazione i piani temporali in un gioco di rimandi incrociati: nel prologo e negli intermezzi affidati ai tre attori nelle vesti delle Parche (che vedono rispettivamente il passato, il presente e il futuro), nei rimandi all’attualità e alle storie di profughi che ciclicamente ritornano, specialmente nelle scene sulla barca alla deriva che intervallano lo spettacolo. Qui le teste e parti del corpo dei tre attori emergono a turno da una sagoma di legno, a forma di scafo, e si stagliano su un fondale colorato, immobili: rendono bene l’eterno vagare dei naufraghi esausti, come in una coazione a ripetere. Contrariamente a quello che prevede il poema virgiliano, le loro peregrinazioni non finiscono a Roma, ma proseguono all’infinito. E prima che la tensione si sciolga in un applauso finale sulle note di Com’è profondo il mare di Lucio Dalla riecheggia come un sinistro monito in teatro la domanda che apre e chiude lo spettacolo, destinata a non trovare risposta: alla fine del viaggio, alla meta sognata «quanto manca?»
Martina Treu
Eneide, generazioni
di Giovanna Scardoni, da Publio Virgilio Marone
regia di Stefano Scherini
con Nicola Ciaffoni, Giovanna Scardoni, Stefano Scherini
Mitmacher Teatro
Visto al Piccolo Teatro Studio Melato, Milano_ 6-16 febbraio 2020