In una città non meglio identificata del Nord Africa un uomo (d’affari?) occidentale incontra sulla spiaggia una donna, le fa un ritratto e glielo mostra. Ma lei tiene a precisare: “Noi non siamo arabi”. Un’affermazione che smentisce immediatamente il titolo (volutamente occidentalocentrico) del lavoro drammaturgico di Davide Carnevali, vincitore del premio Riccione per il teatro nel 2013. Un malinteso che fa da perno a un’incomunicabilità (tra due culture e realtà sociali) destinata a crescere e a ripiegarsi su se stessa, parallelamente alla relazione tra i protagonisti, fino ad arrivare a un punto di rottura definitivo. Ma è proprio il dialogo, quasi per paradosso, la forma scelta per dare voce a questa mancanza di comunicazione: un dialogo ambiguo e stratificato dove i vocaboli e soprattutto alcune formule – ripetute e reiterate quasi ritualmente nel corso dello spettacolo – assumono di volta in volta connotazioni diverse. Pronunciare le stesse parole, lungi dall’offrire un punto di incontro, diventa invece ulteriore motivo di distacco e incomprensione. Il divario linguistico viene significativamente schiacciato dal testo in un’unica lingua, quella italiana: lo spettatore si trova così in una condizione straniata, quasi venisse immerso nella stessa difficoltà comunicativa che affligge i protagonisti.
A questo vortice dialogico in cui sono imprigionati i personaggi fa da contraltare scenografico il tavolo, attorno a cui gli attori sono seduti e sul quale è posto un grande plastico della “città vecchia” rivestito con i fogli del copione, in un’immagine che ricorda quella di un ambiguo gioco di società. Un labirinto di vie e case, i cui anfratti vengono di volta in volta inquadrati da una telecamera e proiettati sul fondale. Ne nasce un’interessante dinamica tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ dello spazio scenico che dà forma ai lati più enigmatici del testo. Da un lato infatti gli interpreti restano, con i loro movimenti gestuali e di sguardo, del tutto esterni alla scena gravitando intorno ad essa come a un magnete. Dall’altro, la struttura ha un fondamentale ruolo nella dinamica dei rapporti, in quanto impedisce (dentro e fuor di metafora) agli attori e di muoversi e di avvicinarsi l’uno all’altro. Ed è proprio questa staticità fisica a dare risalto alle doti interpretative degli attori che reggono la sfida, riuscendo ad attraversare con una molteplicità di sfumature un racconto essenzialmente di parola. La vicenda si struttura in diversi momenti che raccontano episodi della relazione tra l’uomo occidentale (Michele Di Giacomo) e la donna “araba” (Alice Conti) a cui prendono parte anche i due fratelli della donna (Giacomo Ferraù e Giulia Viana). Sono proprio le interferenze esterne (dai famigliari alla gente del paese) a rendere sempre più complessa la già fragile relazione tra i due. Così il racconto si carica mano a mano della tensione, che fin dall’inizio attraversa le scene: non solo l’uomo mostra la sua natura più crudele, ma anche la donna, che si dice più volte parte di una famiglia emancipata e che non sottostà ai pregiudizi del paese, arriverà a una dura resa dei conti.
L’interpretazione registica di Claudio Autelli intensifica le tinte più scure del racconto, sottolineando la dimensione asfissiante del luogo e gli impedimenti culturali che si interpongono tra i due protagonisti destinati a non parlare mai la stessa lingua. Del resto la sensazione lasciata dal finale aperto è quella che tutto potrebbe ricominciare come prima, attorno allo stesso plastico, ricoperto di pagine fitte di parole, che raccontano sempre la stessa storia: quella di un incontro mancato, e non solo tra due amanti.
Camilla Lietti
Ritratto di donna araba che guarda il mare
di Davide Carnevali
regia Claudio Autelli
con Alice Conti, Michele Di Giacomo, Giacomo Ferraù e Giulia Viana
produzione LAB121
visto al Teatro Franco Parenti di Milano_13-25 giugno 2017