di Thomas Bernhard
regia di Renato Sarti
visto al Teatro Oscar di Milano_ 13-18 gennaio 2015

Nel 1981 usciva in Italia la prima traduzione da Thomas Bernhard (1931-1989), scoperta tardiva di un autore che sarebbe presto diventato un classico sulle scene. I testi di Bernhard, che paiono scritti dal solitario scrittore “con la morte che gli si arrampica addosso” (questa l’efficace definizione del germanista Giorgio Cusatelli), disegnano deserti di pessimismo e sbeffeggiano l’asfittica e paralizzante Tradizione.
Non è da meno Ritter, Dene, Voss (cognomi dei tre grandi attori per cui Bernhard scrisse i ruoli), ma troviamo qui una esasperazione di toni e di ossessioni al limite del grottesco. Ed è questa la linea scelta dal regista Renato Sarti, che nel 2006 aveva curato una versione da “livida farsa”, scegliendo un cast tutto maschile e in quotidiana rotazione degli interpreti, con un risultato caricaturale e dissacrante. A distanza di alcuni anni (nel 2013 al Teatro della Cooperativa e in questi giorni al Teatro Oscar) Sarti ritorna sul testo – sempre nella bella traduzione di Eugenio Bernardi – accentuando la vena grottesca, e lo fa insieme al trio Filarmonica Clown (ricordiamo la loro collaborazione nel 2000 al Teatro Franco Parenti per il fortunato Amleto avvisato mezzo salvato).

La sfida è potente e, nonostante alcune sbavature, pare nel complesso riuscita. Il dramma esplode nella sala da pranzo della ricca casa dei Worringer, abitata da due sorelle, attrici a tempo perso. La minore (Valerio Bongiorno), rancorosa e alcolizzata, finge l’indifferenza dietro un giornale, mentre la maggiore (Piero Leonardon) cura la perfetta accoglienza del fratello Ludwig (un efficace Carlo Rossi), “prelevato” dal manicomio di Steinhof per passare giorni tranquilli in famiglia. Un ménage à trois impossibile e senza speranza, che anzi si trasforma subito in un gioco al massacro. La casa è un inferno, una “tomba squisita dove si servono krapfen”, gravata dal peso di ricordi e ossessioni del passato famigliare incarnati nei ritratti di famiglia (caricature, su cui lo spettatore legge distintamente la firma autoriale di un fantomatico “Renate Sarth”).

Dietro il fratello si riconosce la figura di Wittgenstein, ma ridotto a macchietta: la filosofia – dice il personaggio – somiglia a una locanda in apparenza accogliente, che propina invece cibi e bevande avvelenate. All’attaccamento quasi feticista delle sorelle per suppellettili e stoviglie, Ludwig oppone il vagheggiamento della catastrofe, della casa avita e insieme della patria. Una distruzione che si manifesterà, sulle note dell’Eroica di Beethoven, sotto forma di atto iconoclasta.
Lo spettacolo propone un destabilizzante gioco di prospettive: pazzo è l’egocentrico Ludwig perso nella maniacale ripetitività dei suoi discorsi, oppure le sorelle, amorevoli ancelle e incestuose carnefici ammantate di perbenismo?
Si ride anche grazie alla bravura degli attori che, tra smorfie clownesche e una gestualità sopra le righe, costruiscono irresistibili maschere. Ma la tensione e il “pessimismo immobile” di Bernhard si stemperano forse troppo nella caricatura, e il gioco calibrato di grottesco e comico rischia di sbilanciarsi verso la risata liberatoria. La miscela tra nevrosi maniacali e toni esilaranti, meglio amalgamata, può diventare ancora più corrosiva.

Gilda Tentorio