Regia di Claudio Autelli

visto al Teatro Litta di Milano_ 13-31 Dicembre 2011

Ad ogni spettatore teatrale sufficientemente assiduo e onesto sarà prima o poi capitato – di fronte al più rappresentato tra i drammi shakespeariani – di guardare l’orologio e di scoprirsi già stanco e provato; di notare che Tebaldo ha da poco ucciso Mercuzio; di calcolare quanti avvenimenti devono ancora verificarsi; di elencare mentalmente una morte in duello, una notte d’amore, un esilio, un litigio in famiglia, una morte apparente e due reali, moltissimi lamenti.
Il Romeo e Giulietta di Claudio Autelli sfugge a questo rischio con una calcolata e sapiente operazione drammaturgica: del testo resta solo una sottile, essenziale trama che taglia implacabile tutto ciò che serve a ricostruire una vicenda già nota e che indugia invece sui momenti di introspezione e pathos. Anche la regia lavora in questa prospettiva e non si limita a inseguire lo scorrere ineluttabile degli eventi: Autelli si prende il suo tempo e sorprende lo spettatore con un susseguirsi di immagini, musiche e cambi di luce.
La scena è dominata da una piramide di acciaio pronta a essere utilizzata nei modi più diversi: nella prima scena è un maestoso monumento sui cui posa una donna senza identità, un femminino idolo della mente giovanile di Romeo. La mobilità della struttura permette cambi di scena rapidi, quasi in stile cinematografico; ed è poi destinata a scomporsi in poligoni più piccoli che diventeranno astratte cornici per alcuni monologhi e, infine, le bare della cappella Capuleti.

Oltre alle immagini, non mancano alcune intuizioni interessanti: il balcone dei giovani amanti non è altro che una luce al neon verticale intorno alla quale i due volti appaiono e scompaiono, quasi fagocitati dal buio della notte. La sorpresa di Giulietta nell’essere ascoltata mentre sciorina il monologo più famoso della storia del teatro acquista in questo contesto un’inedita autenticità. Altrettanto riuscita è la trasformazione di alcuni personaggi in icone surreali, quasi mostri onirici partoriti dal sonno della ragione dei due innamorati: appaiono clown dal naso rosso, la madre di Giulietta è un travestito in stile Almodovar, mentre la nutrice e il frate mostrano lo stesso volto, come accade nei sogni alle nostre molte proiezioni.
In altri casi è la semplice distribuzione degli attori nello spazio ad offrire nuove sfumature significanti: la figura di Tebaldo morto assiste immobile Giulietta che aspetta trepidante la prima e unica notte d’amore della sua vita.

Eppure, a ben guardare, non appare del tutto chiaro perché il bravo Autelli abbia scelto proprio Romeo e Giulietta per la sua nuova prova: il suo intervento, pur pulito e ingegnoso, ha il sapore di un virtuosismo un po’ freddo. La sensazione è quella di un testo utilizzato come campo per un esercizio di regia e di stile impeccabile ma privo di sangue, di una reale urgenza comunicativa. Nella note di regia si legge che il focus del lungo lavoro è stato quello dell’amore come “vibrazione dell’infinito”. Eppure di questa vibrazione poco o nulla emerge sul palco: i personaggi non paiono percepirla e il Romeo di Francesco Meola fatica a trovare una reale tridimensionalità. Se il giovane facile agli innamoramenti della prima parte è per sua natura superficiale e volubile, l’incombere della morte richiede un’ardua virata in dimensioni più complesse e profonde che invece non vengono toccate.
L’aspetto più fecondo e riuscito dell’allestimento resta dunque l’influsso di una dimensione onirica e ipersoggetiva che sembra deformare l’intera vicenda e colmarla di sotterranee inquietudini: le stesse che sembrano muovere il talento registico di Autelli e condurlo febbrile da partiture originali come la Licenza a testi impegnativi come La morte di Ivan’Ilic di Tolstoj.

Maddalena Giovannelli