Trasformazione e autenticità sono le parole chiave della performance ideata da Daphne Bohémien, performer, e Ksenija Martinovic, dramaturg. L’incontro delle due artiste, con cui abbiamo avuto occasione di conversare, ha dato vita a DAPHNE Burn your village, primo studio in scena il 10 maggio al Teatro Filodrammatici di Milano, nella cornice del festival Lecite Visioni.
Come è nata la vostra collaborazione?
Ksenija Martinovic: La nostra collaborazione è nata un paio di anni fa, quando Daphne è venuta a vedere un mio spettacolo, Mileva, e un altro mio lavoro, Boiler room – Generazione Y. Poco tempo dopo, lei ha pubblicato il suo libro Trauma e mi ha chiesto se mi interessasse collaborare per portarlo in scena. Daphne ha uno stile molto potente: affronta il dolore, l’intimità e tante altre questioni in maniera diretta, senza risultare banale, sempre coraggiosa e profonda; ho pensato fin da subito a una forma di rappresentazione per indagare la sua scrittura come una sorta di autoritratto performativo. In un laboratorio che conduco, Narrarsi in scena, chiedo sempre ai partecipanti di attingere all’esperienza personale per dare vita a spunti scenici, che possano poi evolversi in spettacoli o performance. Conservando questo approccio, ho dato a Daphne alcuni input creativi, che lei ha sviluppato in tutto e per tutto a livello di scrittura.
Quindi i vostri materiali di ispirazione per questo lavoro derivano dall’esperienza personale?
Daphne Bohémien: Trauma parla della mia storia, senza filtri e senza sconti alla mia vita, a me e a chi ne fa parte. Uno degli stimoli arrivati da Ksenija, appunto, consisteva nello scrivere dietro ispirazione di una foto, che poteva ritrarre qualsiasi soggetto. Per esempio, dopo aver scattato una foto ai denti del giudizio che avevo appena tolto, ho scritto un discorso sulle relazioni tossiche, vissute proprio come un dente da estirpare, con quella classica paura di strapparlo. È stato quello il momento in cui abbiamo completamente stravolto ciò che avevamo inizialmente intenzione di produrre, andando oltre il mio libro: il lavoro si è evoluto quasi senza che noi ce ne accorgessimo. Fin dal punto di partenza dello spettacolo si percepisce l’intrico di una scrittura che va ramificandosi e, in generale, della complessità che ci compone. Non apprezzo che le persone e le idee vengano appiattite e semplificate per essere comprese, e così non avverrà per la mia performance: a volte è giusto che siano difficili o creino disagio – così almeno vivo la mia vita e la mia arte.
Che pubblico ti aspetti al festival e che rapporto vuoi ingaggiare tra performance e spettatore?
D.B.: Esattamente come per il libro, ho intenzione di esternare ciò che ho dentro. L’intento concreto è la collettivizzazione del personale: nel momento in cui la mia storia diventa spigolosa e difficilmente digeribile, quando scatena dubbi nelle persone, allora lo spettacolo non è più ego-riferito; inoltre, tutto il lavoro sarà un continuo trigger a livello visivo, a livello sonoro, a livello performativo. Sono una performer da quindici anni, e il mio obiettivo è trasformare in arte anche ciò che è scomodo: non mi interessa che il mio dolore possa piacere, compiacere o che sia facile da comprendere; ciò che davvero mi preme è sapere che altre persone si possano rivedere in me e nella mia esperienza. È importante che tutti abbiano una comunità di cui sentirsi parte: un grande errore che commettiamo – che non dipende da noi, ma dalla società in cui siamo immersi – è che tutte le persone parte di categorie marginalizzate crescono con un senso di solitudine, perché attorno a loro non trovano simili. È una situazione che ho vissuto e che, come me, hanno vissuto tanti altri. Tutto il mio lavoro, in ogni forma, è una mano tesa che dice: «voi non siete soli».
K.M.: Daphne, di per sé, affronta temi molto politici. Nel mio laboratorio, spesso chiedo come una propria esperienza personale possa essere anche politica: con Daphne non avevo nemmeno bisogno di porre questa domanda. E questa è anche una delle ragioni per cui mi interessa moltissimo lavorare insieme.
Come questa complessità riesce a generare uno spazio per un desiderio o per un’identità queer, che non necessariamente è conciliabile con la rappresentazione teatrale tradizionale?
D.B.: Nello spettacolo, pur senza utilizzare le parole transness o queerness, inevitabilmente si parla di questi temi, perché si tratta di corporeità, di come venga percepito il proprio corpo, della sua performatività all’interno di una società e di quanto sia labile la soglia tra aspettativa sociale e autodeterminazione. L’approccio della performance è sicuramente queer: il materiale scenico è diventato una sorta di caos, inteso come rifiuto delle istituzioni, delle regole, di una società e di una sessualità predefiniti – tutti elementi che identificano una soggettività queer. Questo stravolgimento è stato l’approccio fondamentale e principale al nostro lavoro.
K.M.: Il nostro obiettivo non è mettere in scena uno spettacolo teatrale canonico, ma un’esibizione molto più performativa, quasi scomposta, più idonea al linguaggio e all’identità di Daphne. E abbiamo intenzione di realizzare ciò sotto ogni aspetto, così che il pubblico lo possa percepire nell’atmosfera, nel luogo, nei suoni. Nel mio lavoro, è sempre il contenuto a definire la forma: in questo caso volevo rompere il più possibile la teatralità, tradizionalmente intesa.
Qual è il potenziale evolutivo degli spazi di rappresentazione in relazione ai valori estetici e politici della scena teatrale contemporanea?
K.M.: Il nostro spazio non sarà la sala teatrale, ma la palestra dell’Accademia dei Filodrammatici, un ambiente che ci è parso perfetto non solo per ospitare la performance, ma anche per amplificarla. Il desiderio è che, in futuro, il lavoro possa vivere anche in altri contesti, ancor più diversi, meno tradizionali e convenzionali, adattandosi alle esigenze di questi spazi, come gallerie, musei o altri luoghi espositivi.
D.B.: Il fatto che lo spettacolo sia costruito sull’improvvisazione significa che si può modificare nel tempo, possono cambiare i momenti di interazione e quelli di performance. L’idea è che sia un’esperienza che viva con me ma anche senza di me: uno spazio di rappresentazione a sé stante, autonomo, che potrà agire anche senza che io sia presente.
a cura di Bianca Polissi e Sara Buono
immagine di copertina: Daphne Bohémien
L’intervista fa parte dell’osservatorio critico dedicato a Lecite Visioni 2025