Quando compriamo un biglietto per andare a teatro, apparentemente stiamo consumando un prodotto: fruiamo di un servizio, siamo “utenti” della scena. Ma in realtà nel momento in cui entriamo in sala, ci accomodiamo, si spengono le luci, il buio ci avvolge, la mente si attiva. Uno dei presupposti che fonda il teatro è la relazione politica con la platea: la fiducia, possiamo dire, che il pubblico sia capace di elaborare ciò che vede: di riconoscersi, di non piacersi e di provare a re-immaginarsi.
Il teatro è un imbuto rovesciato, è l’opposto di quel funnel teorico utilizzato per descrivere una strategia di business volta a precisare il target di vendita, per raggiungerlo con la precisione di un cecchino. Quando andiamo a teatro, entriamo con il nostro punto di vista ristretto e usciamo con la possibilità di guardare le cose in modo diverso. Il teatro ci pone nella condizione di mettere in discussione le nostre certezze e, più in profondità, la nostra identità. Andiamo a teatro per sentirci fuori posto e condividere questa sensazione spiacevole e pruriginosa insieme ad altre persone. E, a partire da questa percezione, esercitare collettivamente il pensiero.

L’attivazione del pensiero critico non è una condizione che si verifica a prescindere, ma dev’essere ricercata e creata dalla regia, dalla drammaturgia, dalle azioni dei corpi sul palco. Durante il viaggio all’interno del focus Catalogna abbiamo letto e commentato alcuni testi molto diversi fra loro, ma la cui costante è stato il rovesciamento dell’imbuto. Abbiamo selezionato alcune drammaturgie provenienti da un contesto geografico, politico e linguistico, particolarmente attivo dal punto di vista politico. In Catalogna, abbiamo incontrato autori e autrici di teatro che trovano in questo mezzo e un’occasione per pronunciarsi sui grandi temi della contemporaneità: dai valori fondanti dell’Europa, messi alla prova dalle onde migratorie del mediterraneo, allo scioglimento dei ghiacci dovuto al cambiamento climatico, fino al rapporto tra potere e cultura. Abbiamo spaziato tra voci di diverse generazioni, comprese tra i 40 e i 60 anni, tra chi ha vissuto l’infanzia sotto il franchismo e chi è nato dopo la fine della guerra civile. Tutte queste personalità artistiche si sono formate, o hanno frequentato, lo spazio della Sala Beckett, una realtà che promuove la formazione drammaturgica e ospita progetti teatrali internazionali, per alimentare lo scambio tra diversi modi di concepire il dispositivo teatro. Per approfondire il discorso e il ragionamento sulla drammaturgia catalana abbiamo scelto di dedicare a un autore in particolare, Esteve Soler, 3 articoli, per un focus nel focus, in modo da dare una panoramica più ampia della sua scrittura e un’occasione per riflettere su un percorso organico.

Dalle drammaturgie catalane che abbiamo letto emergono sguardi profondamente consapevoli della funzione politica del teatro, come luogo in cui si nutre e si esercita un pensiero critico. Allo stesso tempo, si tratta di autori e autrici che impegnano la loro scrittura per delineare orizzonti provocatori, a tratti scioccanti, per riflettere sulla condizione presente della Spagna, sull’eredità della dittatura, per interrogarsi su cosa significhi far parte della Comunità Europea, su quale sia il patrimonio culturale condiviso in cui rispecchiarsi e quali siano le ipocrisie ne derivano. Al termine di questo viaggio, possiamo dire che la drammaturgia catalana è una sfida per chi legge, ma anche per chi immagina il testo sulla scena. La scrittura in alcuni casi è urticante, spietata, angosciante e, ad affrontarla nell’intimità della lettura, quasi mancano le forze. In altri è irriverente, rarefatta, comica e, proprio per questo, ancora più degna di sospetto. In Combat di Carles Batlle, l’amore non ha speranza: nasce con una maledizione e muore platealmente come la Lady Of Shalott di Waterhouse, lasciando il posto solo alla violenza della guerra (un richiamo a quella civile?); in Bufali. Una favola urbana di Pau Mirò “c’erano una volta 5 fratelli” e come molto spesso accade la fiaba è un’allegoria di qualcos’altro, nello specifico della vita a Barcellona, dagli anni del franchismo fino ad oggi; in Al contrario! di Lluïsa Cunnillé le vicende di una direttrice di teatro fanno da specchio ai rapporti politici tra la Catalogna e l’Europa e mettono l’accento sui tagli pesanti ai fondi della cultura che si sono verificati in tutti i Paesi dell’UE. In Kepler – 438B (La Terra Promessa) di Guillem Clua, un’inondazione apocalittica, dal sapore biblico, è il pretesto per far emergere le dinamiche politiche dietro al referendum per l’indipendenza catalana e la tematica del cambiamento climatico. Infine, la Trilogia della rivoluzione di Esteve Soler, a cui abbiamo dedicato un approfondimento con il commento a Contro libertà, Contro l’uguaglianza e Contro la fraternità contesta i principi e i valori alla base della società attuale, una trinità fondata dalla rivoluzione francese, che oggi non ha più nulla di rivoluzionario. Ma il teatro sì, il teatro può ancora essere uno spazio politico nel quale confrontarsi e ri-fondarsi. Nell’intervista a Soler, che abbiamo intitolato Contra el teatro, il drammaturgo catalano afferma che siamo in un’epoca di cambiamenti repentini e radicali e che «Se il teatro vuole continuare ad avere un pubblico, dovrà essere rivoluzionario. O almeno tanto rivoluzionario quanto lo saranno le nostre vite».
Speriamo di poter tornare presto, insieme, a teatro per rovesciare l’imbuto.

Carlotta Pansa