Fiori per Algernon è un racconto di fantascienza di Daniel Keyes, pubblicato nel 1959, trasposto poi in romanzo (1966) e in film (I due mondi di Charly, 1968): narra in forma di diario l’esperimento scientifico a cui si sottopone Charlie, affetto da grave deficit mentale (in parallelo al topo Algernon), per sviluppare le proprie capacità mentali. L’esperimento ha successo, Charlie acquisisce una consapevolezza e una maturità a lui ignote, ma l’uomo e il topo sono accomunati dallo stesso destino – perdere del tutto le capacità mentali come Charlie intuisce e poi testimonia nelle ultime strazianti pagine. Il racconto è magistrale per come descrive l’esperienza emotiva e affettiva di una persona dai processi intellettivi diversi dal comune, eppure a loro modo unici e preziosi: lo sottolinea Diego Lanza in un libro ormai ‘classico’ del 1997, Lo stolto, da leggere e rileggere (per citare il Calvino di Perché leggere i classici), e per fortuna ristampato nel 2020 da Petite Plaisance. Accanto a Charlie vi trovano posto personaggi come Gurdulù (Il cavaliere inesistente) e tanti ‘sciocchi’ delle fiabe (come quelle raccolte da Calvino), capaci di guardare il mondo in modo diverso, e raccontarcelo senza filtri, né finzioni, con ‘verità’. Questi stessi tratti distintivi caratterizzano il personaggio, tratto da Calvino, a cui dà corpo, anima e voce sul palco Mario Perrotta nello spettacolo che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Carcano di Milano, s/Calvino, o della libertà: frutto di un lungo lavoro sul grande scrittore (di cui si celebra ora il centenario della nascita) scandito da varie tappe di avvicinamento.

Come Keyes, anche Perrotta sul palco dà voce magistralmente a uno ‘stolto’, in un monologo interiore in prima persona dalla struttura circolare, ad anello: parte dalle soglie della demenza per arrivare alle più alte forme di espressione, poi ripiomba nel buio di una totale afasia e immobilità. Perrotta trae spunto da La giornata di uno scrutatore, concepito e ambientato da Calvino il 7 giugno 1953, all’Istituto Cottolengo di Torino, tra i malati di mente che gli suscitano un’impressione fortissima (ci metterà dieci anni a scriverlo). Tra i pazienti del Cottolengo, ritratti nel libro, Perrotta ne sceglie uno, disabile e ‘nano’ (o meglio ‘diversamente abile’, ‘affetto da nanismo’, chiosa. E aggiunge «Se non c’è cattiveria in chi lo pronuncia e in chi m’ha dipinto così di cattiveria non ce n’era, anzi allora mi piace: Nano!». Come non pensare a chi oggi censura i classici in nome del politically correct: dopo Omero e Dahl toccherà anche a Calvino?). Perennemente intrappolato dentro un corpo inerte, incapace di muoversi e di esprimersi, il Nano domina il palco da una sedia, elevata su una struttura metallica (non c’è nient’altro in scena). Lo spettacolo si apre e si chiude, come una parentesi, con un lampo accecante di fari puntati su noi spettatori, sulle note di un ‘classico’ di Jimmy Fontana (Il mondo, 1965). A inizio spettacolo cerca di cantarla, il nostro protagonista: maschera muta, immobile, con occhi e bocca spalancati, il corpo bloccato in uno spasmo innaturale. Pian piano con spasmodica lentezza si anima, afferra il microfono, trova la voce. Canta. Oltre a conquistare lo spazio che l’autore («Il Calvino Italo») non gli ha concesso, al di là della pagina originale, si prende anche le libertà che la vita non gli ha dato, la capacità di muoversi, esprimersi, amare. E tramite lui affiorano dal testo le parole di Calvino, i suoi personaggi, pensieri, riflessioni, emozioni, gli amori ‘impossibili’ o quantomeno ‘difficili’, per citare un altro suo capolavoro (Gli amori difficili, 1958). Perrotta dà il meglio di sé cantando gli amori mancati, sfiorati, sognati, perduti o mai consumati. Come quello del protagonista per Suor Antica, che si occupa di lui, ma non lo sente, non lo guarda, non lo vede, o come quello di Cosimo per Viola (Il Barone Rampante, 1957). Il Nano e il Barone si guardano, in un passaggio-chiave:

Io non sono libero. E Suor Antica non sospetta proprio… Mi guarda e non mi vede. Potessi parlare, dire due cose, tanto per chiarire che sono qui, anche due cose minime… una! – guarda – una sola frase perché non ci sia equivoco che esisto, che penso, che sento; una ma lapidaria: non le voglio le lumache! Ah, ah. Come il Cosimo! Anche io, quando arriva la broda a papparella, tac, mi armo di lessico all’improvviso e grido: non la voglio la papparella! Sai che scompiglio… (considera) Il Cosimo… Nella testa del Calvino siamo nati quasi coetanei… Lui però è stata ‘na botta. “Non le voglio le lumache!”. Una rivoluzione! Che invidia. Poterlo fare io. Però il Cosimo l’ha fatto un po’ per tutti, eh? Tutti i ragazzetti del mondo in coro “Non le voglio le lumache”… Quantomeno l’ha fatto per me e per tutti gli impossibilitati all’eloquio qui dentro!

foto: Luigi Burroni

Il Barone, visto dal Nano, riprende vita come simbolo di libertà, di ribellione, di tutto quello che in molti possono solo immaginare, rinchiusi nell’ospedale, nel loro stesso corpo, nella mente o altrove (e qui ripensiamo al lockdown). Costretti a guardare, muti, il mondo di ‘fuori’, sognando la libertà, la felicità, l’amore, senza riuscire a trovarli, a goderli, a conservarli: come Cosimo, che si autoconfina sugli alberi, suo regno e sua prigione (agli occhi del nostro anonimo protagonista) e non vi rinuncia neppure per amore, sacrificando la sua felicità mentre Perrotta, in un accorato appello, lo incita a seguire la donna della sua vita. Invano. 

Noooo! Cosimo! Nooo! Cosa fai? Lasci andare?! Scendi da questi alberi, Cosimo! Va bene! Bello il mondo visto dall’alto, bello guardare con distacco, bello volare alto sulle cose del mondo, però poi la vita è qui giù, la carne, la passione, il culo di Venere! Sei tu che l’hai ostentato, sei tu che ce ne hai fatto innamorare, tutti! E ora lo guardi che si eclissa e non fai niente? Oh, altezzoso! Guarda che non sono più lumache! Qui si rischia, qui c’è il precipizio! Sai dov’è che arriva l’umano? Dove arriva l’amore! Senza quello che fai lì? Niente. Mi ha dato di matto il Cosimo, come l’Orlando, il furioso. Ha pianto che lui solo sa quanto, ha divelto rami e rami e scorticato tronchi interi, ha attaccato a scrivere Viola su tutti gli alberi del suo regno, come un adolescente qualunque. Ma scendi, no!

I testi di Calvino (compresi Il cavaliere inesistente, Le cosmicomiche, Le città invisibili, Palomar) sono rielaborati e metabolizzati in forma poetica, spesso in rima, col ritmo di una ballad o di un pezzo trap: acquistano nuovo senso, ci appaiono a tratti profetici, ci parlano di noi, oggi, dei social, degli schermi, del contrasto tra essere e apparire, tra ‘dentro’ e ‘fuori’. 

Eh, ridi ridi, te che il collo (ballìcchia dondolando il collo), ce l’hai sempre a disposizione… giri di qua, giri di là, guardi quel che credi, ma, appunto, non vedi. Scorri ma non scorgi. Osservi ma non contempli. Miri ma non ammiri. Assisti ma non interpreti. Trascorri ma trascuri. Registri ma non penetri (…)

foto: Luigi Burroni

Perrotta ci guarda, ci chiama direttamente in causa, mentre scattano i flash: 

Il Calvino osserva le foto di tutti: quelle dei volti del lì fuori e quelle dei volti del qui dentro e cosa dice? (…) Dice che, noi dementi totali e le suore, nelle foto siamo… (…) beati. “Felici e fotogenici”. Provvisti di una evidente beatitudine (indicando il pubblico) Mentre di loro cos’è, che dice (…) Le foto dei loro documenti: uno strazio! Guarda: track! (flash degli accecatori sulla platea) Ecco! Guarda, guarda! Occhi sbarrati, lineamenti gonfi, “un sorriso che non lega” dice, un sorriso che non lega… (…) Track! (flash degli accecatori sulla platea) Guarda Agostino! (parla ai compagni) Avete visto? La nevrosi… L’impazienza che prefigura la morte nelle foto dei vivi.

Ci vediamo con altri occhi. I suoi. Sentiamo tutto il peso del silenzio che l’opprime, a cui è costretto a tornare quando lo spettacolo si chiude come si è aperto: con la canzone di Jimmy Fontana, ora cantata da Perrotta, sommessamente, come un blues di sublime e struggente malinconia. Ma noi non siamo più gli stessi.

Martina Treu


in copertina: foto di Luigi Burroni

S/CALVINO O DELLA LIBERTÀ
uno spettacolo di Mario Perrotta
con 
Mario Perrotta
produzione Permàr, Emilia Romagna Teatro ERT | Teatro Nazionale