Due webcam, uno schermo, una cassa audio e poco altro. Gli strumenti impiegati nella videoinstallazione di Dries Verhoeven sono riportati sotto il titolo in una didascalia illuminata, come fossimo nella sala di un museo: Guilty Landscapes, episodio 1, Hangzou, Cina. Siamo in una stanza vuota, in uno degli spazi tra cui si articola il programma di questa 49° edizione di Santarcangelo Festival. Oltre alla didascalia, c’e solo uno schermo molto grande su cui è proiettato il video dell’interno di una fabbrica cinese.
Bastano pochi secondi per accorgersi che uno dei protagonisti – una ragazza che interrompe il proprio lavoro e avanza verso la telecamera – può vederci e imitare i nostri movimenti. La performance, ideata per uno spettatore alla volta, non prevede un’osservazione passiva, bensì la relazione con un “performer” che non appartiene al suo spazio, ma con il quale è in connessione attraverso il device tecnologico, proprio come accade ormai usualmente in videochiamate o dirette social. Ma qui la connessione ci porta direttamente dentro ai paesaggi della colpa che danno titolo all’opera: immagini che il pubblico è abituato a vedere come contesti lontani, luoghi irraggiungibili di notizie che appaiono continuamente sugli schermi dei nostri dispositivi, diventano un paesaggio di cui si è protagonisti. L’intimità e la delicatezza richieste da questo incontro – anche il rumore della fabbrica si attutisce nel momento in cui la ragazza al di là della webcam indossa una cuffia e inizia un dialogo silenzioso con noi – diventa il meccanismo di ingaggio dello spettatore.
Da osservatori esterni, informati ma per lo più indifferenti, ci troviamo a essere parte di una relazione molto ravvicinata che passa attraverso l’interdipendenza dei movimenti, dei gesti e degli sguardi mediati dallo schermo. Un linguaggio del tutto fisico, corporale e umano, reso paradossalmente possibile dalla presenza di un mezzo tecnologico. Nello spazio davanti allo schermo ci accorgiamo della presenza di un telo steso a terra, su cui la ragazza in remoto, attraverso il linguaggio fisico con cui abbiamo imparato a dialogare, ci invita a stenderci. Ecco allora che, in una installazione artistica che potremmo faticare a definire performativa, ritroviamo tutti gli elementi del teatro: due corpi che si incontrano, il linguaggio del movimento e dello sguardo, e un luogo nello spazio che ci indica il punto prospettico privilegiato da cui osservare. La posizione di sicurezza da cui solitamente guardiamo notizie fisicamente lontanissime da noi viene messa in discussione: ci sentiamo fragili e in qualche modo colpevoli nel momento in cui capiamo di essere visti, di essere parte di quel luogo così lontano e per questo estremamente vicino. Lavorando sui tempi ristretti – dieci minuti concessi dalla frammentarietà del nostro contemporaneo – la performance di Verhoeven sembra puntare a uno spostamento dell’attenzione e del punto di vista, invitando lo spettatore a fermarsi e interrogarsi sulle relazioni e sui ruoli nel rapporto tra le persone.
Modalità e tematiche analoghe (vicinanza, intimità e insicurezza) sono quelle provocate da Sparks di Francesca Grilli. Qui il contatto avviene tra il singolo spettatore e un bambino che lo prende per mano, per poi leggergli i segreti nascosti tra le misure, le proporzioni e le linee del palmo. Un atto performativo mediato da condizioni imprescindibili, chiaramente spiegate prima di entrare in sala: tra i due soggetti non ci può essere dialogo, né uno sguardo diretto – ciascun bambino indossa del resto un caschetto con visiera che gli nasconde il viso. Ma, nonostante l’imposizione di queste forme di distanza, le cose che i piccoli vaticinanti ci dicono sono di un’intimità quasi violenta, che ci riporta all’importanza di un contatto, uno scambio profondo che, soprattutto nel quotidiano, è ormai delegato sostanzialmente al rapporto visivo.
Al centro di entrambi i lavori, la ricerca di un rapporto di prossimità invita a ripensare la relazione con l’altro e i meccanismi di potere, con due dispositivi relazionali paradossalmente opposti. Se in Sparks ci troviamo in un contatto diretto e molto personale, ma non possiamo innescare nessun tipo di dialogo, in Guilty Landscape la dimensione virtuale del rapporto diviene quasi impercettibile proprio grazie al dialogo. Il nostro sguardo è continuamente cercato da quello della ragazza nel video, ed è solo quando il suo viso diventa sproporzionatamente grande (nella vicinanza della telecamera) che lo schermo, rompendo quel rapporto di scala, impone la propria presenza.
Francesca Serrazanetti
Guilty Landscape
di Dries Verhoeven
produzione Studio Dries Verhoeven
coproduzione SPRING Festival Utrecht, Foreign Affairs Berlin, Boulevard Theatre Festival Hertogenbosch, MU Artspace Eindhoven
Sparks
creazione Francesca Grilli
suono Roberto Rettura
chiromante Guido Rossetti
parola Azzurra D’Agostino
movimento Benno Steinegger
Design e realizzazione copricapi Paola Villani
Spettacoli visti nell’ambito di Santarcangelo Festival 2019