Non si dica che il teatro fatica a ricollocarsi al centro del dibattito pubblico. Mentre BlacK Lives Matter resta il movimento in assoluto più citato nell’intero globo, e mentre infiamma il dibattito intorno alla lettera pubblicata da Harper’s sui rischi e le contraddizioni della cancel culture (qui una bella riflessione di Claudia Durastanti) il festival di Santarcangelo, nonostante le difficoltà del contesto, cuce un programma che dal piccolo mondo del teatro guarda fuori, e prende posizione.
Torna in scena il già molto applaudito Black dick di Alessandro Berti (tra le molte recensioni, da rileggere quella di Massimo Marino) che non ha esaurito le cose da dire: un maschio bianco, solo in scena, si prende la responsabilità di analizzare gli stereotipi e i pregiudizi razziali legati alla figura del maschio nero. Dalla pornografia, passando per i videoclip musicali fino alle figure chiave della lotta politica, Berti mette in luce i fenomeni di riappropriazione consapevole e inconsapevole, mostrando quanto insidiosa può essere, persino per chi crede di averla superata, la pervasività di un immaginario. E proprio in questa parola – immaginario – risiede per Berti la ragione del suo prendere parola: è lo sguardo della maggioranza («la maggioranza adesso siete voi, siamo noi») a creare le maschere deformate e deformanti di cui è tanto difficile liberarsi, ed è su questo che vale la pena intervenire.
Di immaginario, e di sguardi che plasmano identità si nutre anche Sorry, But I Feel Slightly Disidentified del coreografo belga Benjamin Kahn per la danzatrice surinamese Cherish Menzo: l’impressionante e potentissima performer incarna su di sé tutti i cliché iconografici legati al corpo nero. Vestito tradizionale e poi felpa scura da rapper, note scratchate e twerking, corsetto nero e tacchi alti: Cherish mostra i meccanismi di sessualizzazione e ghettizzazione del corpo, quasi a tessere una storia dello sguardo e delle sue trappole. Mentre il pubblico si avvia camminando per il prato, dedicando parole ammirate alla Menzo, qualcuno nota con disappunto che il coreografo (unica firma del lavoro) dopotutto è un maschio bianco, e qualcun altro sbuffa dicendo che se andiamo avanti così uccideremo l’arte e l’immaginazione.
Nel bellissimo catalogo del festival, particolarmente ricco e di ampio respiro, Rossella Menna istiga Igiaba Scego (Le due linee del colore: conversazione con la scrittrie Igialba Scego) proprio su questi temi, domandole se gli artisti ora sono «condannati a non poter essere altro da sé, a non potersi rappresentare con sembianze diverse da quelle che hanno per pura contingenza sociale, geografica, economica». Ed è così che, dialogando nel piccolo bar Roma di una piccola città romagnola, diventa pertinente richiamare persino un articolo della grande Zadie Smith che sul «New York reviews of books» interviene In defense of fiction, ricordando che essere autori significa innanzitutto diventare altro da sé. È raro, signori e signore, ma accade: con le riflessioni, la produzione di pensiero, con la capacità di porsi questioni scivolose e irrisolte, un festival teatrale può smettere di essere una piccola scatola per addetti ai lavori, e diventare prisma delle scosse telluriche che stanno inesorabilmente cambiando il nostro di guardare l’altro, e l’arte.
Maddalena Giovannelli
(foto di copertina: Bas de Brouwer)