Come reinventare un festival teatrale alla luce delle nuove sfide poste dal presente? Su questa domanda hanno riflettuto i rappresentanti di diversi festival, durante la conferenza “Nel corso del tempo. Festival in tempi pandemici” che si è tenuta lo scorso 15 luglio. Una sorta di inaugurazione della 50esima edizione di Santarcangelo Festival e, contestualmente, una riflessione parallela sulle sfide e le opportunità a cui va incontro il sistema dei festival in generale. Oltre agli ospiti in presenza, hanno partecipato in videochiamata numerosi altri operatori, così che la riflessione è stata fin da subito calata nell’ intreccio, ormai definitivamente imprescindibile, di virtuale e reale. Roberta Ferraresi – critica e ricercatrice che si sta occupando di redigere una storia completa del percorso storico del festival – ha enucleato con chiarezza i tre filoni attraverso cui il festival di Santarcangelo ha da sempre cercato di trasgredire rispetto al format “vetrina”, ancora ampiamente in uso in molte esperienze della penisola. Trasgredire, si diceva, per non tradire gli obiettivi di innovazione e sperimentazione che hanno sempre caratterizzato la natura stessa del festival romagnolo.
La prima linea di eccedenza si manifesta nella ricerca di spazi alternativi rispetto al palcoscenico: Ferraresi indica la direzione artistica di Roberto Bacci – fra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso – come momento-sorgente di questo percorso, in un’ottica di “rigenerazione” in cui luogo e performance si vivificano a vicenda. C’è poi il superamento della concentrazione temporale del festival-vetrina, per arrivare a immaginare progetti permanenti o una struttura stabile che renda possibile la ricerca e la sperimentazione. A ciò si lega la terza linea di eccedenza, cioè la volontà da parte del festival di porsi come spazio di produzione, oltre che di mera programmazione a carattere distributivo. I moltissimi temi messi in campo tornano a più riprese negli altri interventi dei partecipanti alla conferenza e in particolare – non potrebbe essere diversamente – resta centrale la «sfida di mettere in scena, anche quest’anno, le proprie proposte». Viene da Luca Ricci (Kilowatt Festival) un appello al rafforzamento della prospettiva politica del teatro e dei festival, nella speranza di riuscire a comunicare i propri contenuti al di fuori della solita cerchia.
Sono invece soprattutto i “padroni di casa” di Santarcangelo 2050, Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande di Motus, a mettere in luce le difficoltà organizzative concrete di un “festival in tempi pandemici”. Oltre all’impossibilità di offrire un panorama davvero internazionale, ci sono da considerare la necessità di scegliere spettacoli con uno o pochissimi attori in scena nonché l’obbligo di distanziamento sociale del pubblico. Eppure, nonostante le mille difficoltà, può essere l’occasione per far emergere nuovi spunti e valorizzare le potenzialità del teatro all’aperto, oppure per scoprire il fermento culturale delle comunità più vicine. Può essere che, dalle limitazioni a cui siamo costretti, emerga un nuovo tipo di intimità fra spettatori e pubblico, una pratica di vicinanza che invece non sarebbe possibile nell’ «alta temperatura di un festival standard», come aggiunge Francesca Corona di Short Theatre. Se c’è un tratto che accomuna gli interventi è allora la voglia di trasformare le difficoltà in opportunità: la paura nel sollievo di essere costretti a rimodulare lo schema consolidato per imporsi davvero di essere molteplici, come conclude Daniela Nicolò. Tradire il format è ciò di cui un festival ha bisogno per rimanere un luogo di sperimentazione e di avanguardia e contribuire all’avanzamento di tutto il sistema teatrale.
Chiara Carbone