Il Teatro dell’Arte ha ospitato, tra il 23-28 maggio, due produzioni di Sardegna Teatro: Macbettu di Alessandro Serra, tratto da Macbeth di William Shakespeare; ed Esodo. Tributo a Sergio Atzeni di Valentino Mannias.
In comune tra questi due spettacoli, molto diversi nel tema e nella tecnica, non c’è solo o tanto il fatto ch’essi siano prodotti di artisti sardi e che la Sardegna, con la sua lingua, i suoi simboli, la sua storia e i suoi enigmi, si ponga prepotentemente al centro di ambedue. Comune a queste due produzioni è piuttosto, mi sembra, la ricerca su due generi poetici: cioè sul racconto, dunque sul mito (in senso etimologico) e sull’epica, da una parte (Esodo); sul dramma e specificamente sulla tragedia dall’altra (Macbettu).

Il primo spettacolo, che adatta al teatro un romanzo splendido di Sergio Atzeni (Il quinto passo è l’addio), sperimenta le potenzialità arcaiche della parola narrata e le sue capacità evocative; il secondo va invece alle origini del teatro, ai suoi principi elementari, ai suoi riti. Il primo si richiama all’Odissea; il secondo torna all’irrisolta questione della nascita della tragedia. Da una parte si ha dunque la parola di un narratore/attore unico che come un aedo ricorda e rievoca paesaggi e caratteri usando registri diversi, dal nostalgico al comico; dall’altra, invece, il dialogo e l’azione tra soli attori maschi, la musica come mimesi dei suoni della natura, le cose nella loro più severa semplicità (pietre, legno, fuoco), il corpo dell’attore esposto, senza maschera. Da una parte il ritmo della coscienza individuale e la collocazione o lo spaesamento di quest’ultima nel mondo circostante; dall’altra la presenza di un coro, reale o di presenze simboliche, che interviene, commenta, agisce attorno e nei fatti che vengono rappresentati.

Il progetto di questi due spettacoli sembra dunque nascere da una riflessione profonda sulle radici del fare poetico e sulle sue leggi, quando si ha di mira il coinvolgimento del pubblico. Lo spettatore invero partecipa, riflette, si emoziona, ride, si spaventa; percepisce dunque due esiti estetici diversi, ma complementari, del teatro. Nel primo caso, Esodo, il pubblico viene assorto ed incantato dalla corrente narrativa dell’epica, ossia della memoria di un tempo compiutamente trascorso; nel secondo caso, Macbettu,  sprofonda invece nell’assolutamente presente della tragedia, in cui l’uomo agisce autonomamente e dà alle sue decisioni giustificazioni sovranaturali. In questi due spettacoli, perciò, si trovano epica e tragedia a confronto: dove nell’una, per dirla con Goethe, l’uomo agisce all’esterno, si apre al mondo ed alla sua esperienza, protagonista di un’impresa che si allarga nello spazio geografico e culturale; nell’altra, invece, si rivolge verso la propria interiorità, ascolta l’eco continua del proprio nome (sì che ‘Macbettu’ diventa una specie di refrain). Apparizioni, presentimenti, voci indecifrabili, segnali misteriosi sembrano – all’uomo concentrato solo sul proprio ego –  determinare il suo agire: sino a che l’uomo accecato da se stesso e dall’acquisizione del potere non scopre la loro illusorietà e quindi la vacuità del proprio io, uscendone annientato,  riducendosi a zero: che è il destino dell’eroe tragico.

Da una parte, perciò, abbiamo le peripezie in ‘continente’ dell’ingenuo Giancarlo, il protagonista di Esodo, che dall’isola valica il mare per ansia di conoscenza durante gli ‘anni di piombo’; dall’altra la vicenda delittuosa e senza tempo di un duro Macbettu della Barbagia, che interiorizza e perciò equivoca le oscurità di una terra dai richiami ancestrali. In Esodo c’è il ricordo venato di commozione di una società malata di pregiudizi, ma in cui la famiglia costituisce un’àncora affettiva e un legame imprescindibile, e dove la grande storia riesce comunque a penetrare in una comunità asfittica attraverso i libri e la militanza politica; in Macbettu invece c’è una terra senza passato e senza futuro, dai cupi rimbombi, ove la simbiosi tra uomo ed animale avviene nel segno mai estinto del sangue e i rapporti di potere sono regolati dalla lotta omicida. L’odissea di Giancarlo parte da un’isola lontana ma orgogliosa della propria identità, nonostante gli attacchi dell’industrializzazione e della globalizzazione incipiente. La tragedia di Macbettu si dipana invece in un’isola claustrofobica ed avara, un mondo chiuso, segnato dalle ombre di un passato monumentale, tangibile in quel che resta degli imponenti nuraghi. Un mondo di ombre che vagano oscene tra foreste buie; un mondo animato da sussurri e ghigni che paiono scaturire dall’abisso del tempo; un’atmosfera in fermento, ove si odono richiami inspiegabili, in cui aleggiano simboli inquietanti e corrispondenze segrete. Una tragedia, quella di Macbettu, avulsa dalla storia, o dove la storia si è resa cifra oscura del rito e della tradizione. In questi due spettacoli la Sardegna, dimentica di locandine turistiche o di misteri adatti ad un parco d’avventura, diventa un luogo interiore: e come la Grecia antica per alcuni poeti, non certo minori, diventa luogo animato da molteplici forze inconsce e sentimentali che agiscono sull’immaginario del presente.

Non è dunque necessaria l’esperienza dell’isola per rivivere questo luogo interiore i cui dei, in un tempo inattingibile, fuggirono lasciando le rovine delle loro opere in immense solitudini e silenzi desolati, dove irrompe sinistro il vento e dove unica traccia di vita resta talora il belare di pecore e lo scampanìo di armenti. Un’isola di permanenze sepolte, come gli enigmatici giganti di Mont’ e Prama che con grandi occhi fissano l’eternità; una terra in cui la preistoria continua ad essere parola viva, nonostante la modernità delle tecniche la circondi e la soffochi, o l’abbia stretta in una morsa talora letale (si pensi ai veleni dell’uranio impoverito delle basi militari o della chimica), ne abbia umiliato l’orgoglio, e nonostante le leggi del capitale la releghino ad una condizione di inferiorità economica o a richiamo sguaiato per un turismo insostenibile. In questi due spettacoli si coglie, senza che vi sia enfasi, l’invisibile della Sardegna, spazio immaginario ma anche dell’immaginario e dell’immaginare.

Chi, come me, ha esperienza diretta della Sardegna, può forse ancor meglio apprezzare l’uso non strumentale ma finalmente poetico, e perciò universale, antitetico a ottusi separatismi e rivendicazioni autonomistiche, dell’‘animo’ sardo, se si può dir così: ossia dei suoi suoni, colori, idiosincrasie, maschere, costumi, retaggi, elementi specifici, certo, ma analoghi ad altri perché propri dell’ ‘animo’ umano. Da qui la naturalezza primeva e tragica che risuona nella lingua di Lula, un minuscolo paese nel cuore della Barbagia, segnato da faide e legato ad una religiosità atavica, lingua parlata dagli otto attori del Macbettu. Da qui il fatto che la vicenda di Giancarlo, che ha accomunato tanti giovani non solo sardi negli anni Settanta dello scorso secolo, può essere presa come  esempio di ‘esodo’ biblico – frammento di un altro ininterrotto esodo a cui la Triennale sta dedicando adesso una mostra (La terra inquieta).

A questa universalizzazione della Sardegna contribuisce in maniera decisiva la maestria di Valentino Mannias e di Alessandro Serra; contribuiscono i testi di Sergio Atzeni (1942-1995), un grandissimo del ‘900, che fece della sua stessa breve esperienza biografica un simbolo odissiaco, dell’esodo obbligato al successivo ritorno a casa e a quel mare in cui misteriosamente annegò, come nel gorgo della storia, in una limpida mattina di settembre; contribuisce la suggestione della ‘musica’ di Pinuccio Sciola, l’artista che ha fatto cantare le pietre; contribuisce l’uso di elementi antropologici della cultura sarda, il pane carasau, il vino scuro, i campanacci, la credenza nelle janas (specie di ‘fate’ che hanno sede nelle sepolture preistoriche), gli abiti neri dei ‘balenti’, le maschere teriomorfe dei carnevali, il richiamo al codice barbaricino, gli alberi feriti delle sugherete. Ma il valore precipuo di questi due spettacoli sta, a mio modo di vedere, nella pratica del teatro come luogo politico e filosofico, cioè di discussione e di crisi, di condivisione e di rifiuto. Un teatro di ricerca per chi lo agisce e per chi lo guarda, che pone domande, che non evita di andare al cuore duro della storia, individuale e collettiva: che non esita con Sergio Atzeni a chiedersi perché tra gli uomini “la follia di uccidersi l’un l’altro per motivi irrilevanti” insinua da sempre la possibile felicità di  “passare sulla terra leggeri”.

Sotera Fornaro