di Emanuele Aldrovandi
regia di Pablo Solari
visto al Teatro della Cooperativa di Milano _ 22-28 febbraio 2016

“- Perché non dici mai una cosa intelligente?
– Questa era intelligente.
– Si, ma inopportuna. Se dici una cosa intelligente nel contesto sbagliato non è più una cosa intelligente, ma una cosa stupida”.

Sono spesso così – svelti, acuti, caustici – i dialoghi scritti da Emanuele Aldrovandi. Annoverato, a buon diritto, tra le più interessanti giovani penne del nostro panorama teatrale, Aldrovandi collabora stabilmente con la Compagnia MaMiMò; e in questo contesto è nato, nel 2015, Scusate se non siamo morti in mare, finalista al Premio Tondelli di quell’anno. Il testo contiene tutti i pregi e le caratteristiche a cui il drammaturgo ci ha abituato: una struttura snella e ben congegnata, una partitura dialogica brillante, personaggi che sono innanzitutto funzioni del racconto (e infatti in questo come in altri casi, non hanno nome ma sono identificati dalle loro caratteristiche fisiche).
Quest’ultima prova, però, contiene in nuce il tentativo di uno scarto. Se nei precedenti testi (Farfalle e Homicide House) la prospettiva rimaneva per lo più individuale e domestica, qui il panorama si allarga fino ad includere una delle nostre più dolenti piaghe politiche. Come viene annunciato dall’efficace titolo – ‘rubato’ a uno slogan di manifestanti a Lampedusa – lo spettacolo evoca le pericolose traversate clandestine che tingono di rosso il Mediterraneo, e le cieche politiche di immigrazione (nei prossimi giorni, non a caso, tornerà al Filodrammatici anche La Nave Fantasma di Renato Sarti). Idea meritevole, non solo perché ci ricorda che il teatro può (o deve?) rappresentare luogo di riflessione e dibattito sulle zone d’ombra del contemporaneo, ma anche perché ci dimostra che per farlo non è necessario ricorrere a forme teatrali assertive e già fin troppo rodate.

In realtà le parti più riuscite del testo hanno a che fare con le dinamiche tra esseri umani, non con il tema scelto: tre migranti (Luz Beatriz Lattanzi, Marcello Mocchi, Daniele Pitari) affrontano una lunga traversata verso il futuro chiusi in un container e, fin da subito, mettono in atto un alterno sistema di alleanze che si trasforma in gioco al massacro. Si ha l’impressione che quel luogo forzatamente chiuso, che scatena dinamiche di sopraffazione reciproca, potrebbe essere una nave clandestina come un salotto in stato di emergenza: l’antica verità, sembra ricordarci Aldrovandi, è che homo homini lupus. Quanto all’emigrazione, la suggestione che poteva rivelarsi più spiazzante non viene purtroppo sviluppata fino in fondo: a dover lasciare la patria, si scopre ben presto, sono proprio quegli Europei che oggi faticano ad accogliere i propri simili. L’interessante distopia – potenziale affondo al nostro modo di guardare la questione –  resta solo accennata (basti dire che nessuno dei tre personaggi è in realtà lo specchio di un ‘tipico’ cittadino benestante europeo), e lo spettatore rischia di dimenticarsene.
La regia (firmata da Pablo Solari) punta sul ritmo e le atmosfere ma, di fatto, lascia insolute alcune questioni aperte poste dal testo, non ultima l’identità di un ambiguo nocchiere, un po’ metafisico Caronte, un po’ disperato scafista (Matthieu Pastore); e non ci sembra un caso, infatti, che nel finale il copione rappresentato si distacchi sensibilmente dal testo originale edito da Cue Press, quasi fosse impossibile gestire, nella chiave scelta, la sovrapposizione dei piani drammaturgici.

Qualche assestamento non mancherà di certo nelle prossime repliche (le date milanesi sono il debutto), nella direzione di una maggior coesione ed equilibrio. Senz’altro il percorso tentato dalla compagnia, pur ancora in fieri, è di particolare interesse; e ci auguriamo Aldrovandi torni a prestare il suo talento a simili prove perché abbiamo bisogno – e non poco – di una drammaturgia d’autore che non eluda i nodi problematici del nostro presente.

Maddalena Giovannelli