a cura della Redazione

Cosa intendiamo quando parliamo di classici? Che cosa vuol dire mettere in scena un classico oggi? Bisogna seguire l’originale pedissequamente o separarsene secondo esigenze e criteri di volta in volta differenti? Fino a che punto si può intervenire nella tradizione senza tradirla? E quando si può dire che da un classico sia stato generato un testo nuovo, capace di vita propria?
Serena Sinigaglia ha provato a rispondere a queste domande con Di a da in con su per tra fra Shakespeare, una conferenza-pièce che riflette, sfruttando con intuito tutti gli strumenti della meta teatralità, sulle difficoltà di un regista nell’approccio con i classici del teatro.
E se l’incontro con i grandi nomi avviene spesso a carriera già avviata, la Sinigaglia ha iniziato la sua proprio dal Bardo: “Questo spettacolo è la storia di come io e S. ci siamo prima odiati e poi amati pazzamente”, ha scritto la regista presentando il suo lavoro. “È la storia della mia giovinezza e del mio mestiere. È la storia di una prima volta, la prima volta che scoprivo quanto vicina e toccante può essere la parola di un poeta, quanta concreta semplicità, quanta vita dentro le sue storie, quanta parte di me dentro i suoi versi”.
È di queste storie che ci occupiamo nelle prossime pagine. Analizzeremo quello che sta dietro la riscrittura e la messa in scena dei classici (della letteratura e del teatro) per il palco, indagheremo come operano drammaturghi e registi quando si trovano ad affrontare colossi della tradizione da riproporre al pubblico contemporaneo. Rifletteremo su quali e quanti siano i gradi di separazione tra il testo rinato per la scena e la sua matrice, sia essa teatrale o letteraria. Infine, ci chiederemo quando l’originale sia stato rispettato, pur nella sua reinterpretazione, e quando invece sia stato tradito.
Lo spunto dell’indagine sono cinque spettacoli visti nella stagione 2009/2010: tutti, a modo loro, rispondono a una o più delle domande che abbiamo posto sopra. Ogni caso di studio è diviso in tre sezioni: una presentazione dello spettacolo e due approfondimenti, rispettivamente sul lavoro di messa in scena e su quello drammaturgico di riscrittura e traduzione del testo originale. Il percorso comincia dalle Nuvole di Aristofane nella versione di Antonio Latella alla regia e Letizia Russo all’adattamento testuale. Si prosegue con la resa teatrale del romanzo di Lev Tolstoj La morte di Ivan Il’Ic operata dal milanese Claudio Autelli e con l’esperimento condotto dal regista e attore italoamericano John Turturro sulle Fiabe Italiane di Italo Calvino. Gli ultimi due spettacoli presi in esame sono un reimpasto dall’Eneide virgiliana, Troia’s discont del duo Ricci/Forte e Spara, trova il tesoro e ripeti! dell’Accademia degli Artefatti, tratto dal composito testo del drammaturgo inglese Mark Ravenhill.
Tutti, in modo più o meno consapevole e con risultati più o meno ammirevoli, si cimentano nel tentativo di rivisitare quei classici che, finché restano imbalsamati sulla carta stampata, non cessano di apparire distanti e vagamente respingenti. La trasformazione di un’opera – ancora nella parole di Serena Sinigaglia – avviene quando “è un essere umano vivente a leggerla, guardarla, ascoltarla, suonarla. […] La cultura non c’è, se non c’è il soggetto vivente che la vive e la determina”.
Ma non è solo questo a rendere spiegabili o ben riusciti i tentativi di riscrittura del testo. Riflette in proposito Carmine Catenacci, studioso di letteratura greca e professore all’Università di Chieti, nel volume Resistenza del classico (Almanacco Bur, 2010): “Quando si ha a che fare con un classico, ogni sua ripresa è, a mio parere, tanto più feconda e innovativa, se proprio sfruttando la forza del racconto e dell’immaginario, sa coinvolgere il pubblico e attrarlo dialetticamente verso i significati storici originali e non, al contrario, se semplicemente appiattisce il passato sulla dimensione ovvia del presente. L’arricchimento è nel dialogo, non nell’annullamento di un interlocutore nell’altro”.
Come dire che la forza del classico si fonderebbe sul legame dinamico tra attualità e inattualità che esso è in grado di stabilire e sulla sua capacità di giocare con il tempo, mostrando ciò che del passato è perso irreversibilmente, e ciò che invece resta universale e connaturato all’uomo in quanto uomo.
Viene in mente l’urna greca dell’Ode di Keats, con le sue figure sospese tra un passato perduto e un presente eterno, che danzano sospese su note sempre uguali e allo stesso tempo diverse.
Su questa falsariga, la riscrittura del classico può essere pensata come una “messa in vita” che non tradisce il senso del testo originale ma nemmeno lo forza nella direzione di una resa contemporanea a tutti i costi: è il caso delle Nuvole di Aristofane nella versione di Latella-Russo.
Ma anche in questo caso: è così vicino l’originale? Oppure tra noi e la matrice si è già creato un discrimine, un filtro, una sorta di vetro da cui è possibile guardare ma non avere contatto diretto? Così sembra credere il poeta, critico e traduttore Edoardo Sanguineti: i classici sono muti – spiega nel suo saggio Il traduttore nostro contemporaneo – e chi parla dietro la maschera del testo originale è solo il traduttore. “Il procedimento, ridotto all’osso, è tutto un travestimento”, chiosa provocatoriamente il critico.
E se la traduzione è già un travestimento, cosa accade quando si prende in mano un testo narrativo per farlo diventare copione teatrale? Non sarà sfuggita questa visione del problema a Claudio Autelli, quando ha preso in mano, insieme a Raffaele Rezzonico, il testo tolstojano per una resa sulla scena.
E se invece per riscrivere un classico fosse necessario dimenticarlo, il testo? Così ha operato Ravenhill, procedendo per accumulo di frammenti pescati da temi universali, come a costruire un grande poema epico contemporaneo: è l’affresco di vita e morte, guerra e pace, amore e odio, creato prendendo a prestito soggetti e miti della storia dell’Occidente immortalati in grandi classici del passato.
La consapevole necessità di una drammaturgia per frammenti che non dia vita necessariamente a un plot consequenziale, ma che proceda piuttosto per decostruzioni, accumuli e giustapposizioni è alla base anche della rielaborazione del poema virgiliano elaborato da Ricci/Forte
Un’operazione che si può definire, a tutti gli effetti, riscrittura postmoderna di un classico. “Postmoderno è il pastiche debole, in tutte le sue forme, questa smaccata unione di classico e popolare che trova oggi nella rilettura del classico teatrale il proprio terreno d’elezione”, scrive Andrea Porcheddu nel saggio Dal post-teatro all’alter-teatro? (in Corpi e visioni, a.c.d. antonio Audino, Artemide, Roma, 2008) . “Di Shakespeare o Pasolini, di Genet o Eschilo si prende la frase, il frammento, la suggestione che diventano codice d’accesso, passepartout”. Spiega perché il critico Alan Wilde: “Gli scrittori moderni tentarono, rivolgendosi all’interiorità, alla trascendenza, al mito, alle forme assolute dell’ironia, di recuperare una qualche verità essenziale per restaurare un ordine in quella che Virginia Wolf chiama “un’età di frammenti”. Quelli postmoderni rappresentano la percezione e l’accettazione di un mondo in cui il disordine eccede e sfida ogni ricomposizione” (in Horizons of assent. Modernism, postmodernism, and the ironic imagination, University of Pennsylvania press, Philadelphia, 1971). Proprio come nella rappresentazione di Ricci/Forte. L’importante è che il senso non vada smarrito e che a questa pars destruens ne segua una construens.
E quando questo accade? Quando la riscrittura travisa e snatura il testo originale? Quando lo trascende e lo priva di alcuni aspetti che gli erano connaturati e sostanziali senza però aggiungere nuovi significati che possano giustificare la separazione dall’originale? Ad aiutarci a ragionare su questo punto, la critica alla discutibile messa in scena delle Fiabe italiane di Calvino da parte della compagnia di John Turturro, adattatore e regista del testo nonché attore in scena.