Alberto Savinio, commentando l’avvento della radiofonia nel 1948, ebbe modo di esprimere il suo apprezzamento per un medium capace di fare “del limite la sua forma”. La sfida che oggi si pongono le arti dal vivo – confrontarsi con orizzonti incerti e con la necessità di una continua ri-mediazione – non è troppo dissimile. Può questo momento di crisi diventare il motore per una metamorfosi dei linguaggi anche sul piano delle estetiche? Quali confini possono essere spostati o ripensati?
Questo il focus del dialogo che è stato trasmesso in diretta su segninonda.org il 2 novembre (nell’ambito del progetto “Chain Reaction”) e che ha visto coinvolte realtà di teatro ragazzi di tutto il mondo, dal Cile alla Russia, dal Canada ai Paesi Bassi. Le esperienze e le difficoltà condivise dai partecipanti durante il dialogo sono da considerare veri e propri casi di studio, ai quali guardare per tracciare strade di resilienza, e per prendere coscienza del potenziale trasformativo di questo difficile momento storico.
La riappropriazione degli spazi
La funzione pubblica e il ruolo socializzante delle arti performative – riaffermati con forza negli ultimi decenni – sono stati messi fortemente in discussione dalle limitazioni imposte dalla pandemia. Non poche realtà artistiche, tuttavia, hanno provato a rimettere queste istanze al centro delle loro pratiche riscoprendo un rinnovato rapporto tra teatro e spazio pubblico. Si è creato, cioè, un doppio movimento: da un lato spazi non teatrali (strade, piazze, parchi, cortili) si sono trasformati in palchi per spettacoli e sperimentazioni, dall’altro gli edifici teatrali hanno riscoperto, in modo del tutto inedito, la loro funzione pubblica all’interno delle città.
Persino i luoghi della nostra quotidianità da quarantena si possono rivelare un imprevisto set: è accaduto grazie a un interessante progetto del Theater Artemis di Leiden (lo ha raccontato, durante i dialoghi, Jetse Batelaan) che con Social Disdancing ha dato vita a un percorso di coreografia collettiva nel parcheggio di un supermercato. Viceversa, molti teatri canadesi (questa la testimonianza di Jeremy Stacey dell’International Performing Arts for Youth) hanno aperto le porte alla cittadinanza, offrendo i loro spazi per esigenze mediche e sociali, riaffermandosi così centro della vita pubblica.
Le differenti possibilità esplorate dagli artisti in questi mesi – negli spazi domestici e pubblici, aperti o chiusi – hanno avuto dunque come obiettivo quello di ricucire, per quanto possibile, i lembi di un tessuto sociale lacerato, e quello di riaffermare l’importanza del teatro (più che mai quello per le giovani generazioni) come aggregatore di una comunità. Un teatro accessibile e diffuso è oggi un’esigenza che non riguarda solo gli addetti ai lavori, ma l’intera polis.
La contaminazione dei linguaggi
Le arti dal vivo sono sempre state fluide e allergiche alle etichette e ai ghetti. Già da moltissimo tempo il teatro indaga proficuamente il rapporto con tecnologie, video e digitale, e proprio nei territori no man’s land tra le discipline si sono collocate alcune delle esperienze artistiche più interessanti dell’ultimo ventennio. Le forme di ibridazione spesso respinte dal mercato teatrale perché “non catalogabili” (si pensi alle avvilenti divisioni per genere a cui gli operatori devono aderire per accedere ai finanziamenti o alla distribuzione) oggi diventano necessarie, richieste, invocate come una panacea. Le metamorfosi profonde, si sa, hanno bisogno di tempo. E infatti gli artisti che, fin dai primi mesi dell’emergenza Covid, hanno saputo inventare favole telefoniche, spettacoli su Zoom, coreografie domestiche, sono gli stessi che ormai da anni sperimentano con libertà media e linguaggi.
Ne è una prova evidente anche la programmazione di Segni, e la velocità con cui il Festival ha reagito alle limitazioni della seconda ondata trasferendosi interamente online. Oltre alla previdenza della direzione artistica (che aveva già preparato il terreno per questa eventualità) è sintomatica la prontezza di artisti e operatori a effettuare il “salto di specie”: una duttilità che contraddistingue, ormai da qualche tempo, una generazione abituata a muoversi con agio tra mezzi e forme. Si veda, a titolo di esempio, Bastiano e Bastiana di Teatro all’Improvviso: una composizione scenica ispirata all’omonima opera musicale di Mozart. Lo spettacolo, firmato da Dario Moretti, riesce a far interagire in modo organico tre differenti linguaggi: la musica (una pianista e una cantante lirica, che eseguono dal vivo); il disegno (effettuato live dallo stesso Moretti); il video, che proietta in scena i delicati tratti del disegnatore, contribuendo a rendere intellegibili gli snodi fondamentali della fiaba. Nella versione digitale resa disponibile sulla piattaforma segninonda.org, lo spettatore visualizza simultaneamente tre schermi (di cui uno è, a sua volta, uno schermo); a conferma di come ben prima dell’emergenza, gli artisti stessero sperimentando, contaminando, ibridando media e linguaggi.
Tra funzionale e superfluo
Dai difficili mesi che abbiamo attraversato, e da quelli che stiamo attraversando, abbiamo imparato moltissimo. Abbiamo accelerato i processi di digitalizzazione e provato a tutelare ciò che, socialmente, riteniamo indispensabile. Abbiamo regolamentato gli spazi di relazione con gli altri e li abbiamo resi funzionali. Ma cosa accade a tutto ciò che non è indispensabile e non è funzionale?
Eugenio Barba è stato ospitato, di recente, negli spazi di Teatro Koreja e l’incontro (“Il teatro ai tempi del colera”) è stato diffuso in streaming. Barba ha ricordato, in quella sede, che il teatro è per eccellenza il luogo del superfluo. Un luogo di relazione costruito non solo dalla drammaturgia che viene portata in scena, ma anche dai colpi di tosse, dal rumore delle caramelle scartate, dal sudore dei corpi, dalle prove che non sono servite a nulla, dalle discussioni degli attori e anche di quelle tra gli spettatori, dai commenti in foyer. Alla bellezza del superfluo – e al rischio di smarrirne il ricordo – ha fatto pensare, su tutti, lo spettacolo Spoon Spoon della compagnia olandese De Dancers. Il lavoro (uno dei preferiti dai teens che hanno animato gli “Spuntini critici” durante il festival) ricostruisce l’immaginario di una cameretta in una notte onirica e fiabesca. I tre bravissimi performer-danzatori, con la complicità di un musicista in scena, costruiscono e decostruiscono castelli di materassi, si lanciano uno sull’altro e poi nel vuoto, mettono in atto vertiginosi disequilibri per poi tornare sempre in piedi. La drammaturgia racconta con intelligenza che paura, desiderio, rischio e piacere sono intimamente connessi. Nella ripresa video resa disponibile sulla piattaforma segninonda.org, si percepisce appena la presenza del pubblico in sala. Si intuisce il fiato sospeso dei giovanissimi spettatori prima di ogni salto, si sente la vibrazione gioiosa delle risate al tonfo del materasso per terra, e l’eccitazione di chi guarda un altro correre un rischio e uscirne bene. Si avverte, insomma, tutto quel misterioso fenomeno corporeo e collettivo che accompagna la fruizione e l’elaborazione di un’esperienza: quel processo vitale e superfluo che fa a volte innamorare del teatro. Mentre studiamo modi sempre più funzionali di interazione, non dimentichiamocene.
Maddalena Giovannelli
(In copertina: Spoon Spoon di De Dancers, ph: Bart Grietens)
Questo articolo fa parte dell’osservatorio critico su Segni New Generations Festival