Nell’ambito della XVI edizione di Segni New Generation Festival a Mantova ho avuto il piacere di conoscere il progetto europeo Teen Ambassador (coordinato ormai da diversi anni dall’associazione Segni d’Infanzia) prendendo parte al primo degli Spunti(ni) Critici, un momento di confronto e riflessione tra artisti, pubblico, adolescenti e critica teatrale. Proprio a un gruppo di giovani tra i 13 e i 19 anni è stata offerta una grande opportunità: frequentare le stagioni teatrali e i maggiori festival europei realizzando uno scambio di sguardi e prospettive con artisti e compagnie straniere e con i coetanei dei diversi paesi coinvolti. Con grande spigliatezza, entusiasmo e molte curiosità, i Teen, a partire da riflessioni raccolte nel corso della giornata, hanno guidato questa conversazione ponendo agli artisti domande o manifestando le proprie opinioni in merito alle scelte registiche o ai messaggi contenuti all’interno dei lavori visionati.

Gli spettacoli in programma, accomunati dall’intenzione di rivolgersi a ogni tipo di spettatore, hanno utilizzato linguaggi molto diversi, dal clown teatrale di Area 52 della Compagnia della Settimana dopo, con Emanuela Belmonte, al circo contemporaneo di On the road. La vita è come un viaggio… della compagnia ArteMakìa, fino al teatro proteiforme e immersivo sperimentato con Hamelin da Factory Compagnia Transadriatica e Fondazione Sipario Toscana, di Tonio De Nitto e con Fabio Tinella. I Teen hanno però individuato un filo rosso, quello della politica, aprendo un dibattito molto interessante.

Prende subito la parola Edward, che dal 2017 fa parte del progetto Teen Ambassador, entrando nel merito dello spettacolo del quale, insieme ai suoi compagni di viaggio, ha potuto seguire l’evoluzione. Tutto è cominciato a giugno, all’isola del Giglio, con Segni d’estate, una delle tappe del festival. In questa occasione i Teen hanno visto nascere Hamelin, contribuendo in maniera significativa alla sua realizzazione. Tonio de Nitto ha infatti confermato che la presenza assidua dei ragazzi e delle ragazze, arrivati al Giglio per seguire le cinque giornate del festival, è stata confortante e utilissima alla definizione di uno spettacolo che stava prendendo forma proprio in quell’occasione e che non poteva prescindere dalla risposta del pubblico, senza il quale sarebbe stato impossibile mandare avanti la storia. Gli spettatori, infatti, partecipano anche grazie alla guida di parole e indicazioni, diverse a seconda che si tratti di adulti o bambini, che possono ascoltare attraverso delle cuffie, consegnate loro una volta entrati in sala. Esistono due livelli di lettura e di comprensione, trattandosi di uno spettacolo tout public: è questa una scelta che ha incuriosito molto i Teen, inducendoli a interrogarsi sul particolarissimo finale, una “festa catartica”, come dice De Nitto, che coinvolge sia adulti sia bambini.

Le domande dei giovani osservatori nascono dalla curiosità di comprendere in che modo il regista si sia confrontato con i suggerimenti da loro offerti durante quei pomeriggi passati insieme al Giglio. Si tratta di un interrogativo significativo, perché dimostra quanto i Teen si siano sentiti profondamente coinvolti, comprendendo l’importanza del loro ruolo di spettatori attivi: modificare la rotta di uno spettacolo o quanto meno offrire la possibilità agli artisti di sperimentare soluzioni fino a quel momento solo immaginate. 

La prima metà è rimasta uguale, dicono. Ma come sono arrivati alla conclusione? Che significato ha il finale? Perché la festa non è solo per i bambini? Chiede Federico. È stato già pensato così oppure il finale è arrivato dopo il confronto con i bambini? Chiede Francesca.

Hamelin; immagine ufficio stampa

Hamelin è uno spettacolo fortissimo e denso, sia dal punto di vista dei linguaggi utilizzati – che passano magistralmente dal teatro di narrazione al teatro di figura, al teatro musicale, fino all’esperienza in cuffia, che amplifica in maniera eccezionale tutte le altre – sia rispetto ai temi trattati, che fanno riferimento all’esperienza della pandemia. L’artista sfruttato e poi brutalmente scacciato, l’infanzia oppressa, la negazione del corpo inteso come possibilità di gioiosa espressione del sé, come desiderio di relazione. Noi spettatori abbiamo sperimentato insieme il dolore dell’oppressione, la drammatica presa di coscienza di essere a nostra volta oppressori e la gratitudine per aver avuto un’altra possibilità. Non sorprende, dunque, la domanda sul finale, che, come ha raccontato De Nitto, vuole essere il tentativo di portare a compimento tutte le premesse iniziali, la possibilità di verificare, assumendosene il rischio, il livello di complicità e di empatia innescatosi tra attore e spettatori. Il finale, insomma, è la scommessa che si vince o che si perde, il luogo dove attingere idee per il futuro (come quella di regalare strumenti invisibili ai bambini, un’intuizione di una piccola spettatrice nel corso di una delle repliche), il momento in cui esplodono le emozioni accumulate nel corso di una storia che abbiamo ascoltato tante volte ma della quale forse per la prima volta comprendiamo il senso, il nostro senso, perché la sentiamo sulla nostra pelle, la viviamo con i nostri corpi. È lì che si scioglie il nodo e che iniziano le riflessioni personali.

Perché, dunque, anche gli adulti partecipano alla festa? De Nitto spiega che gli adulti intraprendono un percorso molto doloroso, che riguarda tanto l’educazione dei propri figli quanto la condizione di solitudine dell’artista. Dalle cuffie proviene una frase semplice, eppure così commovente: «per amarli meglio lasciateli andare». E mentre la ascoltiamo vediamo in scena quei bambini che hanno scelto di raggiungere sul palco il pifferaio ammaliati dalla sua offerta: ha regalato loro strumenti musicali invisibili e li stanno suonando insieme, stanno ballando intorno al suo carretto, sono felici e divertiti, si sono dimenticati di noi e adesso vanno via con il pifferaio (il loro salvatore?). Si allontanano. Spariscono.

E restiamo noi, ci sentiamo tutti genitori di tutti i bambini e le bambine che non ci sono più e ci mancano. Quando tornano sembra passata un’eternità. Sono nuovi. Qualcuno è spaesato, ma radioso. Qualcun altro corre in lacrime dalla mamma, ma si vede che non è spaventato, è solo felice di rivederla dopo tutto quel tempo. Adesso può cominciare la festa. Si riparte, insieme, nuovi di zecca. Non è un ammonimento, spiega De Nitto: quella frase, che contiene uno dei nuclei dello spettacolo, è un suggerimento. Ma chi sono questi bambini per noi? E chi siamo mentre li guardiamo? Cosa rappresenta per noi tutta questa infanzia che Hamelin ci fa toccare così profondamente? Francesca dice che si è sentita figlia e mamma insieme, non ancora adulta, non più così piccola. Si è trovata in una zona liminare, insomma, che le ha aperto misteriosamente la porta del passato e del futuro, e lei poteva guardarci dentro, ma sentendosi pienamente nel presente. La magia del teatro. Il qui e ora e insieme il viaggio transdimensionale. Edward ringrazia, dice che uno spettacolo così stratificato non lo aveva mai visto. 

Francesca sembra molto colpita da quanto uno spettatore possa essere importante ai fini della realizzazione di uno spettacolo. Rivolgendosi all’attore Fabio Tinella, chiede cosa sia cambiato dopo il confronto con i bambini, dal momento che le loro reazioni sono imprevedibili. Spesso nel corso della conversazione è emersa la parola rischio. Tinella risponde dal punto di vista di chi per un’intera ora deve tenere in equilibrio, da buon giocoliere, tutti i birilli: la forza di gravità, per l’artista, dipende anche dal magnetismo degli occhi di chi guarda. Nessuno deve staccare lo sguardo da quegli oggetti che volteggiano per aria. L’artista lo sa. Per questo Tinella parla subito del rapporto di empatia che diventa essenziale stabilire con gli spettatori e con i bambini in particolare. Lo spettacolo può andare avanti solo se questa magia si compie. E i genitori, se sono in grado di trasmettere serenità e sanno farsi da parte, possono contribuire molto alla realizzazione di questa intesa. Ci vuole grazia e delicatezza per coinvolgere in maniera seria i bambini, investirli di un compito importante, affidare loro un ruolo. Tinella ci riesce. I Teen non dimenticano, però, quel filo rosso che lega le tre visioni della giornata: la politica. In Hamelin essa si trova nella critica sociale rispetto alla condizione di solitudine e abbandono nella quale l’artista è sprofondato durante la pandemia, ricordano.

Area 52; foto ufficio stampa

Lasciano poi la parola a Emanuela Belmonte della Compagnia della Settimana dopo, ideatrice e abile interprete e musicista di Area 52, uno spettacolo di clownerie con musica dal vivo (eseguita al theremin), manipolazione di oggetti e teatro di figura. Una scienziata americana della NASA si reca sul luogo del ritrovamento di un oggetto non identificato per analizzarlo con sofisticati macchinari. Un oggetto sconosciuto ha sempre un potenziale di pericolosità. Ci insegnano così. Per questo l’area viene recintata e tenuta sotto osservazione. I piccoli spettatori non devono distrarsi, né perdere d’occhio l’oggetto misterioso. Bisogna stare all’erta. Emanuela, sollecitata da una domanda relativa al valore politico di uno spettacolo per bambini risponde esplicitando il suo modo di procedere: non cerca un significato, ma lo scopre nel corso del processo creativo. In questo caso a emergere è stato un messaggio di amore e inclusione. L’alieno, proprietario dell’oggetto ritrovato dalla scienziata, arriva sulla terra dopo essere stato contattato dagli esseri umani. Non sembra avere subito buone intenzioni, forse perché anche lui, a sua volta, è spaventato da ciò che gli appare diverso, ma quando sente voci di bambini amichevoli e accoglienti immediatamente si addolcisce, fino a innamorarsi, ricambiato, della scienziata. Timorosa, la donna non ha mai espresso un vero giudizio in merito all’oggetto misterioso: «Potrebbe essere molto pericoloso! O forse no… » ripete continuamente, lasciandoci quel dubbio necessario per instaurare ogni nuova relazione. 

Arriviamo, percorrendo il filo rosso, al terzo spettacolo della giornata, On the road. La vita è come un viaggio… un lavoro di circo contemporaneo della compagnia ArteMakìa, liberamente ispirato al libro di Jack Kerouac. Si tratta dell’esito di una ricerca artistica ispirata al tema dell’oppressione sociale e della critica a un modello consumistico e conformista, capace di insidiare l’essere umano al punto di sottrargli l’identità, i suoi ideali, la sua stessa libertà. È così che i cinque protagonisti, afflitti dalla loro condizione, decidono di partire alla ricerca di sé stessi. 

On the Road; foto ufficio stampa

Sono interessanti i parallelismi con Hamelin: una partenza dopo aver subito una grave ingiustizia e una profonda umiliazione in quanto essere umano; una forte sensazione di solitudine; la felicità che si realizza solo insieme (è la “festa catartica”!), un’idea che scaturisce dalla consapevolezza dell’importanza di essere liberi, né oppressi e né oppressori. È per questo che, sebbene non sapremo mai se il famoso pifferaio della leggenda ancora avvolta nel mistero sia una metafora della vita o della morte, possiamo essere certi che nel caso di Hamelin egli si presenti agli spettatori come un’opportunità per riflettere e per liberarsi. Il pifferaio riporta indietro i bambini, riavvolge il nastro, ci regala un’altra possibilità. Dei personaggi di On the road parlano invece i corpi, che si trasformano nel corso dell’esperienza del viaggio. I movimenti diventano sempre più ampi, le acrobazie più spericolate, fino al tanto atteso punto d’arrivo: ricontattare la propria essenza. Un traguardo che anche in questo caso è coronato da una festa collettiva, con tanto di musica e coriandoli.

Questa serata di confronto, breve, ma intensissima, mi ricorda non solo dell’importanza di ritornare a teatro dal vivo, per vedere e sentire i corpi e ricostituire una comunità di spettatori, ma anche della necessità della formazione del pubblico, dell’educazione alla visione, della costruzione di un bagaglio dello spettatore che poco a poco possa riempirsi degli strumenti necessari a una lettura sempre più sottile delle proposte spettacolari. Questo non vuol dire che la fruizione di uno spettacolo debba essere necessariamente preceduta da una preparazione o che chi non riesce a costruire questo bagaglio non sarà mai capace di decifrare i codici teatrali: si tratta piuttosto di una sana abitudine al teatro, di farci amicizia. Lo abbiamo appena visto: ciò che non conosciamo desta sospetto, ci avviciniamo con pregiudizio, rischiamo di non lasciarci coinvolgere, perdendo così l’occasione di un confronto importante. L’esperienza dei Teen Ambassador, il loro diventare amici del teatro, è davvero preziosa.

Nella Califano

immagine di copertina: Hamelin


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Segni New Generations Festival 2021