Seguire un festival in streaming è una sensazione strana. Non perché non si possa apprezzare il teatro in video. La piattaforma messa in piedi da Segni New Generations Festival, anzi, è una piattaforma ben pensata, con uno stile grafico dedicato ai più giovani, accattivante e funzionale. L’idea di organizzare la programmazione come un palinsesto non viene percepita come la replica di un linguaggio televisivo (si tratterebbe, per altro, di una televisione del Novecento, soprattutto vista con gli occhi dei più giovani); suggerisce la scansione temporale di un festival vissuto in presenza. La imita, la riproduce con un’alternanza di spettacoli, dibatti, momenti di approfondimento. È un esperimento, ben congegnato, che ci aiuta a sondare le possibilità del teatro online. Perché la pandemia da Covid-19, oltre a metterci davanti alla fragilità del settore e a limitare drasticamente le possibilità di fare teatro dal vivo, si sta rivelando un gigantesco esperimento sulle potenzialità che offrono gli strumenti da remoto. Non è un’apologia della tecnologia – sulla quale ognuno, incluso chi scrive, nutre sentimenti diversi e a volte discordanti – ma un fatto. Si sbaglierà, si continuerà a sbagliare – secondo il famoso motto beckettiano –, si scopriranno strade interessanti magari in modo fortuito, si guarderà con nostalgia al passato o si attenderà con ansia al futuro, al momento in cui si potrà tornare a vedere il teatro tutti assieme, “assembrati” nella sala teatrale. Ma comunque sia, alcune delle cose che capiremo durante questo gigantesco esperimento potrebbero tornare utili in futuro, anche quando la pandemia sarà finita.
Sono questi gli interrogativi che sovrastano le discussioni dei ragazzi e degli operatori al Segni New Generations festival. Un momento che si è rivelato di grande intensità soprattutto per capire come il presente sta modellando alcuni dispositivi che potrebbero riguardarci domani. Siamo tutti in viaggio verso una dimensione del teatro che non conosciamo, come la Balena, l’animale guida del festival (realizzata da Vinicio Capossela assieme a Claudia Losi), che è certamente un animale maestoso e pauroso allo stesso tempo, che suggerisce inquietudine come Moby Dick ma che può essere anche vista come un rifugio, come accade per Pinocchio; ma è anche un animale migrante, in movimento, verso territori incogniti.
La giornata cui ho assistito, quella del 3 novembre, era articolata in vari spettacoli e momenti di incontro. La parte spettacolare, varia nei formati e pensata per pubblici diversi, di spettatori più o meno grandi, andava dagli spettacoli realizzati con ombre e animazione di oggetti come Lo zoo di Pinocchio di Drammatico Vegetale o Hermit di Simone de Jong, giocato su onomatopee e gesti in un meccanismo (quello di una mini-casa abitata da un maxi-abitante) di sicuro impatto – spettacoli pensati per i più piccoli; alle narrazioni per musica e voce come Il canto della Balena di Marion Coste e Sabrina Lambert fino a un monologo con un tema forte e non scontato per un pubblico giovane – la depressione e la solitudine – come lo spettacolo di Jade Derudder Panic a lot of other places besides the disco (spettacolo segnalato come adatto dai quattordici anni in su). Un paesaggio teatrale ben articolato e mappato dal sito, che fornisce strumenti per il pubblico dei genitori e dei ragazzi per orientarsi verso le offerte più adatte. Paradossalmente – ma in fondo nemmeno troppo – nelle discussioni portate avanti dai ragazzi durante la giornata è emerso come, in fondo, quella tra il teatro “per gli adulti” e “per i ragazzi” sia una falsa divisione. Esistono, come è ovvio, delle differenze di linguaggio, delle attenzioni specifiche, dei modi di trattare certi argomenti che differiscono se uno spettacolo è pensato per un pubblico adulto o per un pubblico più giovane. Tuttavia i migliori prodotti teatrali per le nuove generazioni sono quelli che riescono a risuonare in tutte le fasce d’età, sia pur parlando linguaggi articolati per pubblici specifici – un po’ come succede con Hermit, pensato per i piccolissimi ma che finisce per essere apprezzato trasversalmente, grazie al fatto, non secondario, di essere decisamente divertente.
Tuttavia, dalla prospettiva di chi osserva il teatro, l’aspetto più stimolante del progetto sono state, ancor più degli spettacoli in programma, le conversazioni impostate e condotte dagli adolescenti. I ragazzi coinvolti nel progetto di Segni Festival hanno dimostrato una consapevolezza del mezzo teatrale e delle sue implicazioni che non si limita a ragionamenti di tipo estetico – come quelli riportati più sopra – ma che centra questioni che si connettono alla natura intima dell’arte scenica. E questo da due punti di vista. Da una parte la riflessione sul teatro come agorà, come palestra di formazione degli individui e dei cittadini. Nel meeting online del pomeriggio, condotto direttamente dagli adolescenti, i ragazzi hanno portato avanti la conversazione sempre mettendo al centro il tema dell’identità, che sentono come un nodo centrale. Per questo, chiunque prendeva parola, era invitato a definirsi nella maniera più libera possibile. «Mi identifico come persona cisgender», «mi identifico come ragazza», sono stati i primi e più frequenti elementi di definizione, perché l’esortazione a non dare per scontate le identità sulla base dei segni esteriori o di un’interpretazione univoca – esortazione connessa alle pratiche dei femminismi contemporanei – ben si adatta ai cambiamenti collettivi di sensibilità su questo tema, che i ragazzi intercettano con naturalezza assai più degli adulti. La combinatoria delle possibilità, tuttavia, ha fatto sì che il gioco dell’identificazione si spingesse altrove, per finire nel campo dell’identità politica: mi identifico come un’europea, un europeo. La piattaforma di dibattito, aperta alle varie nazionalità coinvolte nel festival e condotta in inglese, è una palestra naturale anche per questo tipo di identificazione che, come sappiamo dalle cronache recenti, in altre generazioni è tutt’altro che scontata.
La seconda prospettiva riguarda l’oggetto stesso di questa edizione del festival, realizzata completamente da remoto: la fruizione online del teatro. Per quanto i video che compongono il palinsesto del festival siano ben girati e la fruizione risulti piacevole, per i ragazzi che partecipano allo “spunti(no) critico” del tardo pomeriggio c’è comunque qualcosa che manca. Il teatro come forma di incontro. Massimiliano Civica, in un’occasione pubblica di qualche tempo fa, disse che il teatro secondo lui non avviene interamente sul palcoscenico, e nemmeno è soltanto qualcosa che si assembla nella mente dello spettatore; è piuttosto qualcosa che avviene a metà strada, forse a mezz’aria, tra questi due processi, uno orientato al fare e l’altro al vedere e all’ascoltare. Insomma, senza l’incontro dei corpi c’è qualcosa che sfugge all’alchimia che siamo soliti chiamare teatro. Con un’osservazione ancora più precisa Elena, una ragazza che partecipa al dibattito, mette a fuoco un aspetto essenziale: «nello streaming, così come nella registrazione, lo sguardo della telecamera si sostituisce al mio». Nulla di più vero. Il teatro è quel luogo che raccoglie l’attenzione ma che è anche in grado, piacevolmente, di disperderla: guardando la scena si può appuntare la propria attenzione su un elemento che non è al centro della scena, su un attore o un’attrice che non parla in quel momento, sulla scenografia, su un effetto di luce; ci si può persino concentrare sul buio della sala che incornicia l’azione scenica, o guardare di sfuggita le facce o le sagome degli spettatori come noi. Tutto è consentito, tutto contribuisce a suo modo, perché la percezione è un processo ondivago, non necessariamente logico, ognuno costruisce a modo proprio. A volte persino attraverso delle lacune, che lasciano spazio a una dimensione propriamente onirica, come sosteneva con ironia e arguzia un osservatore in realtà attentissimo del teatro come Ennio Flaiano.
La tecnologia che stiamo usando, anzi, imparando ad usare, in modo così massiccio, non deve essere perciò vissuta come totale sostituzione – il carattere esperienziale della sala teatrale, in un’arte relazionale come il teatro, sarà sempre predominante – ma come una soluzione temporanea che può proficuamente viaggiare in parallelo alla presenza producendo spunti ulteriori e ulteriori possibilità. Il teatro, propriamente detto, tornerà ad essere una faccenda di corpi. Non può non accadere, come accadde nella Londra elisabettiana colpita dalla peste, dove i teatri rimasero chiusi per molti anni, ma tornarono poi ovviamente ad aprire nuovamente le porte al pubblico. Anche le nuove generazioni, per quanto avvezze più di noi alla tecnologia, avvertono con precisione che quello è uno scarto che non si può colmare. Ma integrare quel nucleo centrale con diramazioni possibili, ancora tutte da inventare, può trasformarsi nel tempo in un’attività importante per quanto riguarda la diffusione e la memoria del teatro, arte – è vero – destinata a sciogliersi nel momento presente, ma che da sempre lascia dietro di sé tracce luminose e ricche di suggestioni per i teatri che verranno.
Graziano Graziani
(In copertina: Vinicio Capossela testimonial del Festival, ph: Elettra Mallaby)
Questo articolo fa parte dell’osservatorio critico su Segni New Generations Festival