Il governatore e il bambino
Sera, interno casa, un letto e, sul ciglio del letto, un bambino abbracciato a sua madre. Il bambino piange e mentre piange dice: «Mamma, voglio andare a scuola. Voglio imparare a leggere». Quest’immagine non è tratta da una matinée teatrale, non appartiene alle pagine di un libro di Charles Dickens, non è stata sottratta a chissà quale cartone animato. Il bambino ha sei anni, abita a Napoli, condivide la stanza in cui dorme con un fratello di undici e davvero piange perché davvero vuole tornare a scuola giacché davvero vuole imparare a leggere. A raccontare l’episodio è la mamma, Arianna Montesano, in una breve intervista che Sky Tg24 le fa nell’ambito di un servizio dedicato alla chiusura degli istituti scolastici per l’infanzia causa pericolo Covid: «Avevo accompagnato il mio figlio più grande a una lezione su Gianni Rodari organizzata dall’Associazione Foqus, ai Quartieri Spagnoli» – spiegherà poi, re-intervistata da “la Repubblica Napoli” – aggiungendo che suo figlio più piccolo invece «ha appena cominciato la prima elementare» e che, «nonostante una didattica a distanza molto accattivante per la sua età», «si sente avvilito».
L’intervista va in TV il 29 ottobre. Il 30 ottobre Vincenzo De Luca, governatore della Campania decide di rispondere durante una diretta-via-social, mezzo con cui è solito informare la cittadinanza sulle misure di prevenzione e contenimento della diffusione del contagio in regione: muta erroneamente il genere (da bambino a bambina) e afferma che si tratta «dell’unica bambina d’Italia che piange per andare a scuola». Di più: è «l’unica bambina al mondo che dà pure la motivazione: perché voglio imparare a scrivere, perché mi manca la grammatica e la sintassi, mi mancano gli endecasillabi» spiega, facendo ironia e mostrando tempra dura rispetto ai lamenti lacrimevoli di cui è costretto (suo malgrado) a occuparsi. Infine: «C’è questa povera figlia: evidentemente è un OGM, cresciuta dalla mamma con latte al plutonio». A questo punto sorride sarcastico, effettua una breve pausa – studiata – e passa a questioni più urgenti.

Diorama della compagnia Hanafubuki

Le tre ragioni di un’immagine
Il 4 novembre è il quinto giorno di Segni New Generation Festival, alle 19.00 devo prendere parte agli “Spunti(ni) Critici” portandovi un contributo in quanto osservatore esterno e dunque scorro e vivo – pur stando a distanza, nel chiuso della mia stanza, qui a Napoli – ciò che mi propone il palinsesto: Diorama, della compagnia Hanafubuki; Jack e il fagiolo magico de La Luna nel Letto; Peter Pan di Factory Compagnia Transadriatica; Fritt Fram, prodotto da KompaniTO. Ebbene, più volte mi torna in mente l’immagine del bambino che, abbracciato a sua madre, piange perché vuole tornare a scuola. «Come mai?» mi chiedo. Il motivo mi pare sia uno: il pubblico che scorgo ai margini dei video degli spettacoli: un micro-assembramento di piccoli spettatori che ora stanno accovacciati ai piedi del palco, ora vi stazionano frontalmente o d’intorno, ora – assenti dall’immagine – fanno sentire la loro esistenza. Odo infatti e più volte: il vocio che sfuma a fatica e solo perché l’opera teatrale intanto è iniziata; gli «ssshhh» con cui gli spettatori si ssshhhiano reciprocamente; il silenzio improvviso, assoluto e attento; odo il «Chi è?» detto da un bimbo, che così reagisce al gesto compiuto da un’attrice che sta battendo il pugno a una porta; il fragore collettivo che genera la reiterazione comica di una scena; l’applauso che scaturisce quando, e finalmente, Peter e Wendy si baciano, sfiorandosi per un istante. È l’enorme nostalgia che ho di questo pubblico, mi dico, che sbadiglia platealmente quando si annoia, ride se si diverte, fa «oh…» se viene stupito o salta sul posto se prova paura. Non basta, tuttavia. M’accorgo che il ritorno costante dell’immagine del bambino di Napoli è dovuto ad altre due motivazioni e che entrambe sono legate alla questione di cui dovrò discutere: “Le sfide della programmazione”.
La prima.
Il bambino che piange perché vuole tornare a scuola mi suggerisce la principale battaglia che attende le programmazioni teatrali imminenti e future: rimettere al centro del discorso collettivo – ridandogli la dignità che meritano – proprio i bambini e, con i bambini, tutti coloro che (per usare una brutta espressione, usata in questi giorni da un altro presidente di Regione: Giovanni Toti) sono considerati «non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese». I più giovani e i più anziani; i più poveri e i più fragili; coloro che più spesso stazionano fuori del discorso comunicativo dominante, chi costituisce una minoranza, chi vive in una condizione costante di (ir)rappresentabilità politico-partitica. Tocca al teatro, penso, e pensandolo ricordo le parole dette da Attilio Scarpellini nel mezzo di un’intervista rilasciata a Graziano Graziani: «In Italia ci sono discorsi ed emergenze che non hanno rappresentanza. E il teatro» – che «ha la capacità di essere complesso e quindi ha la possibilità, marginale quanto si vuole, di dire quello che nessuno si vuol sentir dire» – «corre spontaneamente verso ciò che non è rappresentato, per rappresentarlo».
La seconda.
Il bambino alla madre chiedeva due cose: «tornare a scuola» (andare in quel luogo specifico, deputato a) per «imparare a leggere» (per avere a che fare, cioè, con qualcosa che ancora non conosco, che voglio apprendere e fare mio). Provo a riconiugarlo: accessibilità formativa ai luoghi del sapere; l’opportunità del confronto con l’inedito. Si tratta delle due responsabilità principali poste alla base di una programmazione teatrale di valore.

Peter Pan di Factory Compagnia Transadriatica (ph: Eliana Manca)

L’accessibilità, il confronto con l’inedito
A pagina 2 de La fortezza vuota, scritto-documento composto da Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini (e pubblicato da Edizioni dell’Asino nel 2015) c’è un capitolo intitolato Il teatro è un servizio pubblico. Cosa dice, in particolare? Che «Il teatro viene finanziato dallo Stato con lo scopo di portare ai cittadini spettacoli di alta qualità artistica e di intenso impatto emotivo; ovvero ha lo scopo di “educare” i cittadini attraverso l’Arte ed il Bello. Ha la medesima funzione ideale che dovrebbero avere i musei e la scuola: attraverso l’emozione, la bellezza e l’intelletto – attraverso cioè una conoscenza “totale” che coinvolga mente e sensi – dovrebbe aiutare i cittadini ad “elevarsi” in un cammino sociale e spirituale che aumenti la loro coscienza e la loro possibilità di presenza e d’intervento sul reale». E dunque: «Lo Stato, per raggiungere questi scopi, finanzia il teatro a patto che:
1 – Produca artisti e spettacoli che abbiano alte ambizioni d’arte. Il finanziamento pubblico serve infatti per permettere agli artisti di lavorare al riparo dai compromessi del mercato e ai loro spettacoli di arrivare al “grande” pubblico.
2 – Il teatro deve riuscire ad avvicinare sempre più spettatori possibili alle sue produzioni d’arte. Il teatro – attraverso lo sforzo promozionale, i percorsi di formazione, gli incontri con i critici, gli specialisti e gli stessi artisti – deve fornire quanti più strumenti possibili al pubblico perché possa usufruire al meglio degli spettacoli proposti e costruirsi un gusto più esigente e consapevole. Lo Stato dunque finanzia il teatro anche a patto che questo si prenda in carico il compito, negli anni, di creare e incrementare un pubblico (ovvero una comunità di cittadini) sempre più competente ed esigente verso i fatti d’arte».
Di nuovo dunque: l’opportunità (potenziale) del confronto con l’inedito e l’accessibilità formativa ai luoghi (e alle occasioni) del sapere. E d’altronde. Che queste debbano essere le ragioni fondanti di un’azione teatrale sostenuta (totalmente o parzialmente) dal denaro pubblico (che il contributo sia statale, regionale o comunale poco importa) lo dichiarano gli Statuti dei teatri Stabili, dei Circuiti e delle Fondazioni o delle Associazioni che badano all’esistenza di un festival o di una rassegna. Non solo: lo certificano le Leggi regionali finalizzate al finanziamento del teatro, lo ribadiscono la formulazione frequente dei bandi, lo certificano le schede di valutazione con cui il MiBACT analizza la qualità dell’offerta teatrale italiana: quali sono infatti i parametri con cui la valutazione viene effettuata? Alta qualità degli artisti e delle compagnie prodotte/ospitate, innovazione dei progetti, offerta multidisciplinare, valorizzazione nella programmazione della creatività emergente, proposta eterogenea per lessici e temi, assunzione costante di rischio artistico, sviluppo di reti e partenariati nazionali e internazionali (ecco i mezzi per favorire la possibilità dell’incontro con l’inedito); continuità pluriennale nella relazione col territorio, realizzazione di educazione e promozione presso il pubblico a carattere continuativo per l’avvicinamento dei giovani, convenzioni e rapporti con scuole e università, adeguate strategie di messa in relazione comunicativa (sito internet, nuovi media e social network, dirette streaming degli spettacoli, incontri in versione online), integrazione con altre strutture e attività del sistema culturale (ecco invece gli strumenti e le strategie utili ad ampliare l’accessibilità, la visione e l’esperienza fruitiva e formativa).

Jack e il fagiolo magico di La Luna nel Letto (ph: Mariagrazia Proietto)

Questa giornata di Segni, ad esempio
In Diorama (di Hanne Holvoet, Sari Veroustraete, Samuel Baidoo, Tiemen Hiemstra; in scena Sari Veroustrate, Lies Vandeburie, Samuel Baidoo) il sole che da sempre si leva «rosso, arancione, giallo» e «tondo» – «nulla è più certo di questo» affermano non a caso gli attori mostrando al cospetto dei bimbi un piccolo cerchio cartaceo – questa volta sorge quadrato. Se ne accorgono il cigno, la volpe, l’orso e la giraffa, la scimmia, gli elefanti, le zebre, i pinguini, le volpi chiedendosi: cosa significa tutto questo? E cos’altro potrà mai succedere oggi? E domani invece il sole come sorgerà: tondo o quadrato?
Jack e il fagiolo magico (di e con Maria Pascale; testi, regia e scene di Michelangelo Campanale) ci porta «lontano nel tempo, in un posto sperduto», presso «un grande castello» ai piedi del quale sta «un piccolo paese»: è nel piccolo paese, posto al giogo di un orco terribile, che Jack abita con sua madre. Qui avviene dunque una fiaba pupa(zza)ta che in sé ha fagioli da cui spuntano alberi giganti, palazzi inclinati verso destra, nuvole passeggiabili, arpe che parlano, galline dalle uova d’oro e che agli spettatori offre furti e gesti fiduciosi, generosità e inganni, atti di coraggio e spaventi, fughe e rincorse: tutti gli errori che si commettono mentre si cresce, il momento in cui capisco cos’è prezioso e cosa è sbagliato. Peter Pan (regia di Tonio De Nitto; consulenza drammaturgica di Riccardo Spagnulo; con Ilaria Carlucci Francesca De Pasquale, Luca Pastore e Fabio Tinella) non è solo la teatralizzazione del testo di James Matthew Berrie, è invece anche e soprattutto un’opera in grado di parlarci di mancanza d’affetto e del bisogno che abbiamo dall’abbraccio con gli altri; ci parla di aspirazioni e di sogni questo Peter Pan, ci parla di amicizia e d’invidia, d’amore e di gelosia, di morte e di applausi che annullano anche la morte e ci parla del modo nel quale – ad esempio proprio attraverso il teatro – è possibile, anche da adulti, continuare a credere: negli indiani, nei pirati, nelle fate; nel becco dei gabbiani, nel gelato al cioccolato, nella schiuma del mare; negli alberi dal tronco bucato, nella polvere di stelle, nella capacità di volare. Fritt Fram (di e con Mikael Kristiansen, Tamar Ohana Gokøyr, Mari Dahl Stoknes) ci pone infine al cospetto di un cerchio segnato col gesso (tutto lo spazio che abbiamo) in cui stanno una trentina di mattoni di legno (tutto ciò che possediamo in comune) e – attraverso la coesistenza dei tre performer, che litigano e si sostengono, si guardano e si ignorano, si aggregano, disgregano, si accalcano o si danno da fare coi mattoni ognuno per sé – prova a chiederci: com’è che adesso stiamo assieme? Dandoci quali regole e stabilendo che tipo di relazioni ci organizziamo? Riusciremo insomma a convivere?

Fritt Fram di KompaniTO (ph: T.Rosenkrantz Media)

Tornando al discorso relativo all’incontro con l’inedito, noto quindi che: mi confronto con due spettacoli stranieri (la compagnia di Fritt Fram è norvegese, è belga quella di Diorama) e con due spettacoli italiani (Jack e Peter Pan); che le messinscene offertemi in palinsesto propongono eterogeneità creativa e multidisciplinarietà (la tecnica del kamishibai di Diorama, per cui tutto avviene all’interno di una piccola scatola di legno, e la resa rinnovata del cunto attoriale di Jack e il fagiolo magico, l’integrazione tra prosa, danza e video mapping di Peter Pan, la performance fisica – tra giocoleria circense e acrobazia sportiva – di Fritt Fram); che se risulta costante la ricerca del rinnovamento del lessico teatrale questa ricerca si esprime in forme molto diverse tra loro, come dimostrano – ad esempio – le dinamiche sceniche: il mini-teatro di Diorama e l’ampiezza di Peter Pan (che sfrutta anche le ripetute uscite di scena e il dietro le quinte per dare senso alla storia); l’orizzontalità di Jack (per cui la vicenda scorre da destra a sinistra e viceversa) e la circolarità di Fritt Fram, che determina un accerchiamento osservativo del pubblico, radunato in tondo attorno allo spazio d’azione. Ecco dunque la realizzazione di fatto della possibilità dell’incontro con l’inedito: compagnie di cui non conoscevo nome e poetiche s’alternano a gruppi che mi erano già noti, storie celebri s’incastrano con nuove narrazioni drammaturgiche, partiture fisiche convivono con la parola, la parola abita la scenotecnica tradizionale, la scenotecnica tradizionale viene sostituita dalle apparizioni in 3D. E l’altro dovere di una programmazione di valore e cioè l’accessibilità ai luoghi del sapere e all’esperienza formativa? Detto che manca la carnalità della compresenza, per me fondamento irrinunciabile d’ogni teatro, e detto che manca l’ulteriorità dell’imprevisto festivaliero, che sorge dallo stare accanto fisicamente (quell’essere accanto che caratterizza uno spettacolo e le previste occasioni di dibattito, certo, ma  che in un festival si realizza anche incrociandosi mentre si attraversa la città, nel durante dei pranzi e delle cene collettive, ogni volta che attendiamo di entrare in sala o in foyer) per Segni parlano le settemila visite online, l’utilizzo rinnovato e ripensato dei social, la riformulazione in digitale della messa-in-contatto in presenza dei Dialoghi e degli Spunti(ni) Critici; per Segni parla soprattutto il tentativo di non interrompere la relazione pluriennale col territorio e con chi l’abita perseverando – nel contempo – nel confronto con l’internazionalità della scena teatrale tout public permettendone anche in tempi di distanziamento sociale, di teatri chiusi e di viaggi divenuti impossibili, la fruizione e l’approfondimento in remoto.

La locandina di Dialoghi a Segni

L’ultimo interrogativo, infine.
Diorama, Jack e il fagiolo magico, Peter Pan e Fritt Fram hanno un elemento in comune: la risoluzione della trama è collettiva. Gli animali di Diorama si ritrovano uniti (il leone accanto alla scimmia, il pinguino a un passo dall’elefante, l’orso davanti alla zebra) in attesa di scoprire con che forma stamane sorgerà il sole; Jack – dopo aver scoperto l’esistenza della povertà e dell’infelicità, della cattiveria e del terrore – non solo riuscirà a tornare a casa da sua madre ma libererà il paese dal dominio crudele dell’orco; Wendy e Peter, Peter e Trilli, Wendy e Peter costituiscono un’alleanza ed è così che sconfiggono non solo Capitan Uncino ma anche la solitudine in cui giacevano, i timori che avevano del futuro, la sensazione che – cresciuti, compleanno dopo compleanno – non sarebbero più stati in grado di credere all’inimmaginabile; l‘ultimo istante di Fritt Fram ci offre i tre performer vicini: i piedi si congiungono (il mignolo dell’uno tocca il pollice dell’altro) così generando un insieme. Nessun uomo dunque è un’isola sembrano dirci le storie di Segni ed è mentre annoto sul taccuino la frase “nessuno si salva da solo” (spento il pc, terminata la visione degli spettacoli) che mi accorgo che sono solo nella stanza in cui scrivo, ricordo che mi hanno appena ordinato di restare da solo per i prossimi quindici giorni (lontane le persone che amo, infrequentabile la comunità di cui faccio parte) e che è proprio rimanendo da soli che, ci dicono, il nemico forse è battibile. Ebbene, mi chiedo: il teatro di domani saprà raccontare (vorrà affrontare) lo stato di cattività cui è sottoposta la nostra natura sociale facendone stimolo creativo, punto di scavo, oggetto inevitabile di riflessione o – tornati alla luce, usciti di casa – rimuoveremo di nuovo, come già avvenuto in estate, tutto il dolore che abbiamo subito, tutta la paura che abbiamo provato?
Ecco una sfida: l’ennesima che tocca al teatro.
La lascio, a voce, sul finale del mio intervento agli Spunti(ni); la segno qui, chiudendo l’articolo.

Alessandro Toppi

(In copertina: Diorama della compagnia Hanafubuki)


Questo articolo fa parte dell’osservatorio critico su Segni New Generations Festival