Giuseppe Scutellà, regista e attore, lavora da ormai venticinque anni all’Istituito Penale Minorile Cesare Beccaria di Milano dove, insieme all’attrice Lisa Mazoni, ha fondato Puntozero Teatro, associazione no-profit che si occupa di produzione di spettacoli teatrali. Ne fanno parte attori professionisti, studenti di liceo, universitari e giovani detenuti del carcere.

Come ha avuto inizio il tuo lavoro all’IPM Beccaria?
Nel 1995, dopo essermi diplomato come attore alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, sono entrato nell’Istituto Penale Minorile Beccaria come obiettore di coscienza; in questo modo ho avuto la possibilità di proporre e guidare un laboratorio teatrale di un anno con i ragazzi del carcere. Terminato questo percorso ho preso parte come attore ad alcune tournée teatrali. Ma non ero pienamente soddisfatto di ciò che facevo e dell’ambiente in cui mi trovavo, per questo ho deciso di tornare al Beccaria per provare a dare continuità e concretezza al lavoro iniziato in precedenza. Nel 2000 è arrivata anche Lisa Mazoni e con lei non solo abbiamo dato vita a laboratori teatrali per i ragazzi detenuti, ma abbiamo deciso anche di ristrutturare la sala teatrale, inaugurata a lavoro compiuto per la stagione 2015-2016.

Quali differenze riscontri nel modo in cui vivono l’attività teatrale i giovani detenuti rispetto agli attori professionisti?
L’attore professionista corre spesso il rischio di perdere la voglia di rinnovarsi e di sperimentare, credendo di aver raggiunto un traguardo nel momento in cui ha completato la sua formazione. L’attore dilettante detenuto, invece, porta con sé una freschezza e un’energia travolgente che raramente ho riscontrato in chi fa questo mestiere di professione. Questi ragazzi sono davvero dei fogli bianchi, delle tabulae rasae pronte ad accogliere e a interiorizzare qualsiasi indicazione e direzione venga data loro. E grazie a questa incoscienza, assolutamente positiva, riescono a superare ostacoli che molte volte frenano chi si trova sul palco. Detto questo, fanno parte della compagnia anche attori professionisti: i nostri spettacoli nascono dalla volontà di mostrare al pubblico un prodotto artistico curato in ciascuna sua componente, l’obiettivo è evitare del tutto una messa in scena che solleciti negli spettatori la compassione.

Avete messo in scena l’Antigone di Sofocle e diversi testi di Shakespeare come Re Lear, Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate. Come si relazionano i ragazzi del carcere ai classici? Qual è la loro prima reazione di fronte a questi testi?
Inizialmente reagiscono rifiutandoli perché non li conoscono, non ne comprendono il linguaggio che ritengono obsoleto, e quindi li considerano incapaci di comunicare loro un messaggio diretto e reale. Io invece credo fortemente nell’impiego di questi testi in una dimensione pedagogica: la potenza di queste opere viene sprigionata proprio nel momento in cui tentiamo di metterle concretamente in atto. Non bisogna dimenticare poi che per i ragazzi detenuti il teatro è il modo più diretto e intenso per poter entrare realmente in contatto con le parole di Sofocle o di Shakespeare. Per superare il rifiuto iniziale si può lavorare sull’autobiografia inversa ragionando sulle emozioni che il classico suscita nei ragazzi, ripercorrendo alcune tappe della loro vita. L’attore cerca esperienze per creare un personaggio, questi ragazzi compiono invece il processo inverso: hanno già vissuto esperienze-limite spesso realmente vicine a quelle riscontrabili nei testi tragici e  in questo modo hanno la possibilità di condividere una parte di loro stessi nella messa in scena del classico. Il caso di Antigone è in questo senso esemplare: pensiamo alla potenza delle parole della tragedia pronunciate da chi il dramma della legalità, della giustizia divina o morale lo vive realmente! O ancora, riflettiamo sulla forza sprigionata dalle parole di Shakespeare in Romeo e Giulietta nella prima scena: Verona, la piazza, lo scontro tra bande: è il loro linguaggio, è quello che hanno vissuto nella loro vita.

Quest’anno si è tenuta la quarta edizione di Shakespeare e la legge, laboratorio ideato con Mariacristina Cavecchi e Margaret Rose e organizzato in collaborazione con Puntozero Teatro e il dipartimento di Lingue e Letterature Straniere della Statale. Un laboratorio composito,  indirizzato a studenti della Statale, giovani dell’IPM Beccaria e ragazzi della compagnia Puntozero. Come si sviluppa il lavoro con un gruppo così eterogeneo? Qual è il contributo di ciascun elemento?
La presenza di elementi esterni alla realtà carceraria è una vera e propria iniezione di vitalità per i detenuti. È incredibile ogni anno vedere giovani universitari mettersi in gioco in un contesto totalmente diverso da quello in cui si trovano quotidianamente e stare a contatto con persone che altrimenti non avrebbero mai incontrato. È un arricchimento per entrambe le parti: è stimolante per i detenuti vedere ragazzi simili a loro, coetanei che frequentano l’università. Nasce in loro la voglia di diventare altro, di mettersi in discussione. Ciò che gli studenti mostrano ai giovani carcerati è un ventaglio di possibilità: i ragazzi provenienti dall’esterno hanno avuto l’opportunità di scegliere chi diventare, cosa fare nella vita. I ragazzi dell’IPM invece, o per questioni economiche o a causa dei contesti da cui arrivano, non hanno le stesse possibilità e spesso non riescono a immaginare null’altro al di fuori della delinquenza. L’intento è proprio quello di proporre loro, attraverso la presenza degli universitari, un’altra strada, una condizione di normalità, un modo sano di divertirsi.

Alice Strazzi