Nell’ambito del numero di Stratagemmi dedicato al convegno “Shakespeare in the maze of contemporary culture” pubblichiamo un testo scritto da Fabio Cavalli, responsabile artistico di un progetto teatrale all’interno del carcere romano di Rebibbia. Nel 2012 ha collaborato con i registi Paolo e Vittorio Taviani al film “Cesare deve morire”.
Provate ad immaginare un palcoscenico spoglio, poche luci, abiti di scena rabberciati, una compagnia di attori che nella vita hanno davvero poco da perdere e da sperare (magari un po’ di buona celebrità, che farebbe loro tanto comodo). Fra il pubblico, una percentuale di uomini considerati non a torto la feccia della città, qualche intellettuale incuriosito, qualche dama piena di buoni propositi, ed altre, colme di pruderie, e poi ragazzi, adolescenti più interessati all’altro sesso che alla rappresentazione che sta per cominciare (“tanto è sempre la stessa solfa”), infine, un drappello di autorità cittadine, qualche occhiuto censore ben mascherato, e tanti, tanti agenti dell’ordine pubblico.
Ecco, non vi trovate nella Londra del ‘600, magari nei pressi del Globe; no, siete a Roma Rebibbia N.C.. Ovvero nel teatro di una galera. Oggi. In scena: Shakespeare. Né “principi per attori”, né “regnanti come spettatori”, e neppure una “scenografia superba”. Niente. Shakespeare e basta. Quello che manca a completare l’illusion comique sta tutto nelle parole, nelle voci, nei corpi degli attori, nella poesia plastica, malleabile, indistruttibile dell’immenso Autore. Poi avviene il miracolo del teatro: silenzio febbrile nel corso delle scene più tese, risate in quelle ilari, applausi a scena aperta, si piange là dove è prescritto piangere, si ride là dove è prescritto ridere (o dove pare a ciascuno). Alla fine c’è sempre il trionfo del pubblico, degli attori, degli agenti, delle dame e degli adolescenti. Tutti uniti nel miracolo liberatorio della catarsi, quando, per un attimo le storte contraddizioni e la bruttura, e lo scherno cattivo rappresentati sulla scena, sono riscattati dalla bellezza dello stile in opera. E così, la vita – che di storte contraddizioni è piena – si sospende per un momento, nell’inaspettata vacanza goduta fra le sbarre di una prigione, spalancate come il cielo aperto sulle teste degli attori e degli spettatori londinesi di quattro secoli fa. Poi tutto si richiude.
Questo evento, se non fosse stato rappresentato in pellicola dai fratelli Taviani (Cesare deve morire), sarebbe ignoto a quasi tutti – tranne ai 30.000 spettatori “liberi” presenti agli spettacoli a Rebibbia negli ultimi cinque anni. Il teatro elisabettiano – tranne pochi casi – si rappresentava alla luce del giorno. Eppure.
Shakespeare va fatto emergere dall’oscurità con discrezione. Gran parte della sua opera è notturna. Ha bisogno dell’oscuro circostante per manifestarsi. Certo, il teatro oggi è fatto così: immagini che i riflettori sottraggono al buio. Questo principio resta valido anche alle origini, quando tutto il teatro era visibile. E per Shakespeare è assolutamente così. Nell’ombra si svolgono le storie che narra. E i momenti diurni sono brevi parentesi fra una notte e l’altra. Notte degli amanti, notte dei delitti, delle congiure, delle vendette. L’alba è destinata alle esecuzioni capitali. Il sole per il risveglio dagli incubi, per la momentanea sensazione di essere vivi.
L’Autore sa che ciò che avviene al chiaro del giorno è la banale prosa del quotidiano, mentre la poesia dell’esistenza brilla di chiaroscuri. È tutta concentrata in un punto dello spazio, il punto dove l’occhio dello spettatore deve essere costretto a focalizzare l’attenzione. L’Autore sa che la Foresta non muoverà i propri passi maestosamente. Sarà solo evocata, e i pochi uomini che trasportano sagome di alberi non possono che farlo nella timida speranza che nessuno si accigli per l’esiguità del numero e per la vanità del gioco. Io vi chiedo di immaginare uno scontro fra immani eserciti, ma non pretendo che li vediate tutti schierati, dal vivo, nella piana assolata. No. Vi aiuto a vederli ad occhi chiusi. Vi faccio ascoltare la voce riportata di chi contempla l’orrido e magnifico spettacolo della battaglia come testimone, là fuori. Ma voi, seduti sulle sedie, credete a lui. Non a ciò che vedete. Perché in teatro non c’è nulla di grandioso da vedere. Verrà poi il cinema a mostrare oscenamente la carneficina. In teatro ci fermiamo prima della scena, prima della luce che rivela la prosa. Quindi: o è notte, o vi chiedo di chiudere gli occhi, oppure domina la nebbia, che è come un buio per chi ha proprio paura del buio.
Un caso, quello di Shakespeare, proprio contrario al principio classico di far accadere il peggio fuori scena. Qui in scena le cose accadono, sì, ma in sedicesimi. E lo spettatore di Rebibbia deve accettare e credere non solo all’araldo, ma anche ai propri occhi. Io li aiuto a non sforzarsi troppo – dice Shakespeare. Nessuno può dare colpa alla notte se non vede bene ciò che accade attorno. L’epoca moderna ha tratto il mondo dal buio. Le città sono tali se rischiarano gli angoli oscuri dietro i quali si annida la ferocia. Ma questa è roba della modernità. Appunto. Shakespeare visse nell’epoca della non luce. Fuori e dentro la città. E come l’Autore, anche lo spettatore era abituato a non vedere. E a non capire. C’era un patto di tacita convenzione; il paradigma di sopravvivere “a orecchio”, “a tentoni”, “a naso” (se la puzza di cadavere è abbastanza forte da lasciarsi seguire su per le scale della torre). Un paradigma comune all’Autore, all’attore, allo spettatore.
C’è un’altra analogia importante fra il teatro elisabettiano e il teatro penitenziario. La tempra e la condizione umana dei protagonisti: Christopher Marlowe fu assassinato durante una rissa da taverna, Shakespeare frequentava la feccia di Londra e arrotondava le proprie entrate prestando denaro ad usura, Ben Jonson uccise un attore in duello. Molti, fra gli attori, erano soldati o ricercati. Le storie narrate intrecciavano i drammi, le contraddizioni, le biografie degli interpreti: cospirazioni, assassini politici, condanne a morte e violenza sono all’ordine del giorno nella vita sociale e in quella degli attori. Sotto i Puritani il rischio della libertà è come pane quotidiano per i protagonisti, gli autori, gli organizzatori delle compagnie. Niente donne in scena.
La convenzionalità del buio è paradigma anche per il teatro praticato su un palcoscenico penitenziario. Non si sa se sia più violento Shakespeare o il luogo nel quale lo si rappresenta. Si varcano i cancelli e si abbandona il sole. Scrive il poeta Francesco Monterosso: “ho paura / di chi è stato in carcere e ha perduto / la notizia del sole. Altro non vuole / che quella mezza tenebra insicura / per rinnegare il sole. Da qui nasce / l’impostura malefica, la dura / setta dei carcerati, la vendetta / di sopravvivere.”… Non è chiaro che quella “mezza tenebra insicura” è sovrapponibile alla scena shakespeariana? Si dirà che anche in Calderon è così, e in Middleton e in Marlow. E così via. Ma Shakespeare sopra tutti. Dall’epoca del Marino e di David Hume, viviamo ininterrottamente nella decadenza del Barocco. Il Bello è “estetica”, il Giusto è “convenienza”. Bellezza e Giustizia sono irreparabilmente separate. La visione aristotelica non risorgerà. Ma se ne ritrova un barlume in questo Shakespeare adattato al carcere e ai suoi disperati interpreti. Infatti Shakespeare amplifica l’invocazione al diritto alla Giustizia e alla Bellezza che si leva dal carcere. Paradossalmente chi rinnegò o ignorò entrambe, ora trova in Shakespeare le parole per dire ciò che ha perduto – spesso colpevolmente, a volte per causa di forza maggiore. Le parole per ricordare a tutti che l’atto insensato che sta alla base della colpa e della condanna, è quello stesso che sta alla base della “fabula” narrata, cantata, esaltata dal Poeta (J. Genet, L’Enfant criminel). Senza il rischio della libertà non si dà ispirazione poetica. La poesia evoca la libertà presso chi l’ha perduta o, forse, non l’ha mai saputa.
Fabio Cavalli