Mentre a Bruxelles prende forma un accordo che fa intravedere nuovi pesantissimi sacrifici per i Greci, l’ansia ad Atene è palpabile. Ma il pubblico continua a frequentare il teatro, concedendosi uno spazio di rilessione che in un futuro prossimo potrebbe diventare un lusso sempre più raro. Anche la fisionomia del Festival Atene-Epidauro si trasforma, perché quasi inevitabilmente lo spettatore greco cerca sulla scena qualche risposta all’oggi. Già abbiamo riferito degli echi di attualità leggibili nello spettacolo Go down, Moses della Socìetas Raffaello Sanzio, e così è stato anche per la serata dedicata a Dario Fo, Avanti Dario (9 luglio): un mosaico di frammenti dall’opera del Nobel italiano in chiave di festa gioiosa del riso, che sa essere denuncia sferzante e contagio di energia e ottimismo.
Grande era l’attesa per il collettivo berlinese She She Pop. La loro prima apparizione in Grecia è stata nel 2012 al Festival di Salonicco con Testament (giunto in Italia solo quest’anno al Festival delle Colline Torinesi). Ora le performer hanno presentato ad Atene (11-12 luglio) il fortunato Schubladen, che in Europa ha registrato grandi consensi: ricordiamo che al Festival di Santarcangelo 2012 fu spettacolo-rivelazione e candidato ai Premi Ubu come migliore opera straniera.
Si tratta di un percorso particolare di ricostruzione dell’identità (“Chi eravamo? Chi siamo?”) ma, visto nell’Atene di oggi, che ha convissuto per settimane con lo spettro del Grexit, si amplia a una riflessione anche sull’Europa che fu. In un’intervista rilasciata a Niki Orfanoù (EF 09.07.2015), le She She Pop fanno riferimento alla discrasia temporale. Lo spettacolo è stato concepito tre anni fa, un’epoca diversa da quella che stiamo vivendo ora: “sulla scena infatti parliamo secondo una prospettiva europea, quando cioè la Germania costituiva parte integrante del progetto europeo e non si poneva invece come adesso in una posizione distinta”.
Sulla scena tre donne della Germania Est e tre della Germania Ovest si confrontano e si interrogano a vicenda per conoscersi e trovare eventuali punti in comune. I cassetti del titolo sono una sorta di mini-bagaglio culturale, identitario e memoriale, ma reale nella sua fisicità, da cui le protagoniste attingono per uno scambio reciproco di narrazioni, giudizi, canzoni e ricordi. All’inizio sembrano fronteggiarsi due pianeti opposti: vengono a galla pregiudizi e sguardi riduttivi sull’altro, con effetti di straniamento che sfiora anche il comico, perché in fondo “ognuno di noi è una costruzione politica dell’ambiente in cui è cresciuto”. Gradatamente però le differenze si sfilacciano, gli stereotipi cominciano a stemperarsi, i sospetti si tramutano in complicità (notevole la scena in cui due attrici imitano sulle sedie girevoli le evoluzioni della pattinatrice dell’Est Katarina Witt) e i momenti della Storia sono narrati dalla prospettiva del singolo, con risultati di leggerezza anche poetica. Al di là delle differenze politiche e culturali, le protagoniste si riscoprono donne, dunque simili e diverse, come è naturale che sia.
Il pubblico segue con attenzione, ascolta commosso la canzone Ma liberté di Georges Moustaki, ride alla battuta che strizza l’occhio all’attualità “Secondo te quanti dèi dell’Olimpo sono comunisti? – Oggi ormai siamo al 100%”, ma è soprattutto la parola “unione” a condensare la forza di molteplici richiami. Infatti in scena si mostrano le difficoltà di assimilazione fra le due Germanie, la gioia del sentirsi corpo unico che ha comportato però il crollo di un mondo e quindi un perenne senso di mutilazione e di perdita (la cosiddetta Ostalgie). Eppure quell’unione si è raggiunta. Il pensiero corre allo stillicidio delle trattative a Bruxelles: l’idea di un’Europa unita è destinata a resistere?
Gilda Tentorio