«I suicidandi arrivarono unanimemente alla conclusione che, fosse anche la morte la cosa più seria di questa vita, neanche quella lo era più di tanto».

Così scrive Arto Paasilinna nel suo libro Piccoli suicidi fra amici, una favola noir che con sarcasmo e ironia racconta la storia di due uomini intenti a suicidarsi. Il caso vuole che abbiano scelto lo stesso giorno e lo stesso luogo – un fienile – per farla finita; considerata l’assurdità della situazione i due decidono di rimandare la propria fine e di fondare un club per aspiranti suicidi. Le adesioni sono molte, così tante da spingere i due a progettare un viaggio organizzato: un tour del suicidio.
Davanti ai miei occhi, su un tavolo illuminato dall’alto da una luce calda, in un pomeriggio di dicembre si sono compiuti dei piccoli, minuscoli, tenerissimi suicidi. Andava in scena al Lavoratorio l’ultimo spettacolo dell’anno: Piccoli Suicidi di Giulio Molnár, interpretato magnificamente da Olivia Molnár, sua figlia. La Trilogia dei Piccoli Suicidi è un cult del teatro d’oggetti, nato all’inizio degli anni ‘80 durante un’improvvisazione in un laboratorio e poi riproposto in vari festival teatrali europei. Nel 1989 Giulio decise di non metterlo più in scena; adesso, a 40 anni di distanza, è Olivia che prende con sé i tre piccoli suicidandi, liberandoli dal loro stato di semplici oggetti. 

Durante l’attesa nel foyer, mi sono stupita davanti ai molti bambini, curiosi e pieni domande; a pensarci bene, neanch’io potevo immaginare cosa avrei visto, o meglio, tutto quello a cui avrei pensato lì dentro, in quella stanza, catapultata in un’altra dimensione. Prendo posto nelle prime file e alla mia sinistra, neanche a farlo apposta, siede una bambina. Tiro fuori il quaderno con cui, piano piano, sto iniziando a riprendere familiarità con la scrittura e nella luce soffusa mi sento spiata dagli occhi della piccola, che mi vede scarabocchiare mentre lei è solo pronta a guardare. Avrei voluto mi chiedesse qualcosa, così da trovarmi a bocca asciutta, senza saperle spiegare l’utilità di quello che stavo facendo, la necessità di fermare e archiviare tutte quelle parole. 

Tutto diventa improvvisamente buio. Il tavolo si illumina e appare Olivia. Ha un orologio in mano, lo guarda e segna con la sua voce l’ora d’inizio dello spettacolo, 17:21. Lo dice come se, con una puntina di ferro, volesse non tanto fermare nell’aria quell’ora (che potrebbe essere qualunque altra), ma esplicitare l’inizio di una parentesi temporale in cui tutto può accadere, in cui tutto è concesso, illudendoci di poter fermare il tempo da qualche parte nello spazio. L’altra tasca, invece, è quella delle noccioline, «il cibo del Tempo». Annuncia, poi, che su quel tavolo si suiciderà tre volte. Da quel momento, per due atti, non parlerà più: dalla sua bocca usciranno rumori, fischi, borbottii. Su quella scena in miniatura – nient’altro che il tavolo – faranno la loro comparsa un’aspirina, una chicca di caffè e un fiammifero, bisognosi di raccontarsi e animati dalle mani di una ragazza-burattinaia che, come una bambina, gioca e manipola oggetti destinati già a consumarsi: 

«L’oggetto beve con la bocca dell’animatore, vede con i suoi occhi, tocca con le sue mani. Si muove e si commuove per mezzo suo. L’animatore diventa un accessorio dell’oggetto animato. Se l’oggetto vuole nascondersi può farlo nelle tasche dell’animatore».

Così scriveva Giulio Molnár nel suo libro Teatro d’oggetti. Appunti, citazioni, esercizi (2009), riassumendo il lavoro che poi anche Olivia porta in scena. Guardandola mentre inganna e sorride nel prendere in giro i suoi oggetti, penso ai bambini in sala e a quanto la possano sentire vicina: anche loro, burattinai dei propri giocattoli, dettano regole dall’alto, scelgono chi mantenere in vita e chi eliminare in base alla preferenza o alla simpatia, con una semplicità sconcertante; decidono a chi affezionarsi, secondo un affetto mai costante. Tanto è solo un gioco, che tornerà il giorno dopo seguendo tutt’altra storia.  

Nel primo atto una compressa effervescente prova ad avvicinarsi a un gruppo di cioccolatini e per essere come loro è disposta ad abbandonare la propria natura e a vestire la “bustina” di cellophane di uno di questi; rifiutata dal gruppo, si suicida gettandosi in un bicchiere d’acqua. Nel secondo atto il suicidio accade per un amore mancato tra un fiammifero e una chicca di caffè. Tra le fiamme, il fiammifero si consuma per non sopportare l’assenza della sua amata, diventata prima polvere di caffè e poi bevanda in tazzina. Il terzo atto, invece, è una riflessione sul tempo, che porta la metafora scomoda della nostra transitorietà, della nostra condizione di comparse nel mondo.  L’animatrice conta il proprio tempo, afferma con chiarezza l’inizio e la fine del dramma, il numero di secondi in cui una pastiglia ha il tempo sciogliersi e scomparire, di trasformarsi dallo stato solido a quello gassoso, in bollicine da mandare giù a sorsi per poi finalmente morire. Il gioco preferito dei grandi, con il tempo, è giocare a dividerlo, a suddividerlo, con la pretesa di poterlo gestire. I bambini, invece, hanno il proprio tempo per immaginare, per credere che la vita sia davvero un gioco sempre diverso. Al primo suicidio tutti hanno riso; al secondo tutti hanno esclamato un dispiaciuto ohh, anche gli adulti. Al terzo le risate sono un po’ più fragorose, ma si percepisce una punta amara di fondo. «Il tempo passa perchè il tempo è una cosa seria, sì. Non come le mie parole, le mie parole sono solo noccioline, però al tempo piacciono le noccioline», dice Olivia, mentre schiaccia delle arachidi sotto una suola pesante. 

Infine, prendono vita anche gli orologi: segni tangibili del controllo del tempo, senza pace per cercare di segnarlo e inseguirlo. Che ingenui, gli orologi, a credere di poter dormire tranquilli. Olivia dice: 18:10. E gli applausi sono fortissimi. Rimane un cestino in cui si sono accumulati i resti degli oggetti usati: sul tavolo tanta polvere, cenere, dentifricio. Piano piano usciamo tutti, girando le spalle al luogo in cui tutto è stato annientato con una delicatezza estrema. Ma gli orologi non si sono davvero fermati e solo il tempo dello spettacolo è realmente finito. «Sì, siamo tutti morituri», direbbe Paasilinna.

Piccoli Suicidi è uno spettacolo in cui amore, abbandono, solitudine, tempo e morte convivono e si annullano a vicenda nell’arco di cinquanta minuti. Forse, raccontarlo è stato allineare abbastanza noccioline da riempire il tempo di una lettura. Oggi, trascorso un po’ di tempo dallo spettacolo, ho visto una nocciolina spezzata sulle scale della stazione: mi sono sentita sciogliere.

Sofia Mauro


foto di copertina: ufficio stampa

PICCOLI SUICIDI
di Giulio Molnár
con
Olivia Molnár

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