Alle volte, quando la parola cede il posto alle malie delle performance che riescono ancora a colonizzare il pensiero, succede di intravedere la natura profonda del linguaggio. Uno squarcio, frapposto tra la necessità di avvertire il mondo della nostra presenza e l’ambizione di esprimersi in maniera esatta, che non alluda né ammetta ambiguità. È una lacerazione che si fa solo più radicata a contatto con una lingua trasformata in immagini: qui la ricerca dell’incontrovertibilità linguistica viene accantonata in favore del simbolo incerto, il cui riverberare nei dintorni dei contesti locutori attesta un’infinita apertura al lasciarsi interpretare. Anche la moltiplicazione dei linguaggi nel teatro, prestandosi a creare un paesaggio intermediale – di voci gutturali, di riusi letterari, di testi che diventano musica – ci consente di visualizzare gli impliciti della parola nel pieno della loro pluralità di significazioni; mentre si destina a una sorte opposta il lessico scientifico e polarizzato di quella letteratura che tenta così di riempire i punti bianchi dell’indicibile. Se ne lamentava il pubblico contemporaneo a Melville all’uscita di Moby Dick, come potesse essere disorientante la specificità dei codici linguistici inframmezzati in un romanzo che fonde il lessico dell’esoterismo alla documentazione della realtà nautica. Si rimane sospesi presso i luoghi di confine di quella terminologia, che – per quanto annuncino l’innaturalità sottesa degli eventi raccontati – le fanno resistenza; un po’ come sancire l’impossibilità di tracciare la visione sul mondo e sull’uomo di Melville, che si staglia oltre un’irrinunciabile razionalità verbale.
Allora non dovrebbe sorprendere come, per certi versi, Siamo tutti cannibali (di e con Roberto Magnani, produzione del Teatro delle Albe/Ravenna Teatro) prenda le mosse dall’esigenza di tradurre quanto di più oscuro ci sia nella tragedia del Pequod in una brillante sinfonia di voci e suoni: ci si serve cioè di catalizzatori di suggestioni, che procedono a fare della sintassi e della logica di Melville quella che il suo studioso Charles Olson avrebbe definito una frantumazione silenziosa, attuata «con generosa perentorietà» a vantaggio di un respiro poeticamente connotato. Il processo è avviato dal contrabbasso di Giacomo Piermatti, intento a esplorarne ogni possibilità sonora: nel corso dello spettacolo, infatti, alle note gravi delle corde si alternano colpi e strisciate sulla cassa armonica, che trasformano la superficie lignea in un secondo strumento. E al pubblico del Teatro LaCucina non resta che abbandonarsi al variare di questi ritmi per scrutare nella sconfinatezza della scena buia. A contraddistinguere lo spettacolo per tutta la sua durata è una tenebra nella quale soltanto la musica e i rumori fissano l’invisibile consistenza delle travi della baleniera e il loro scricchiolare, quel battito cardiaco dell’oceano che s’imprime sulla scena in tutta la sua primitiva vitalità. Al silenzio completo – per non dire abissale – non si arriva mai. La parola di Magnani si alterna alle immagini musicali del contrabbasso senza soluzione di continuità, come se ad abitare entrambi fosse una palpitante entità a più voci che deve trovare il modo di esprimersi. Anche quando una fioca luce comincia a raccontare la scena, lo sguardo indugia ad ascoltare: il lavoro su un Achab roco, gorgogliante, fa quasi perdere di vista i giochi di rifrazione che, originati da una bacinella d’acqua, ne illuminano la spettrale corporeità. L’Achab di Melville ha lasciato spazio a uno meno rarefatto, che fin da subito occupa la scena dall’alto del terrore da lui stesso evocato. Quel «padre, vecchio cannibale» si presta pertanto a incarnare un ribaltamento sulle intenzioni umane: il Pequod che ne deriva, come fosse una sua emanazione, non è più infatti il rifugio per un gruppo di diversi, seppur le descrizioni dell’equipaggio rimangano invariate rispetto all’originale. È piuttosto un doppio della bestialità del suo capitano, che ne ribalta ogni componente verso un’insita violenza. Ecco che l’oceano si trasforma in una marea di sangue; e anche lo stesso Ismaele, illuminato da una luce sempre più tenue ogni volta che Magnani ne assume il ruolo, è senza via di scampo, affascinato irreversibilmente da Achab. Le scene proseguono a barlumi, concatenate dal solo incedere dei suoni del contrabbasso: la narrazione si articola così in brevi scorci dal romanzo, coordinate d’immediata fruibilità per riflettere sulle nere comunanze tra gli uomini. A rivelarsi è un’attenta analisi filologica a vantaggio anzitutto di un discorso autoriale, volto a riscoprire significati sottesi nel libro.
Allo spettatore non serve però tutta la questione letteraria per rendersi conto di come anch’egli sia chiamato in causa da quel Siamo tutti cannibali che fa da titolo al saggio di Lévi-Strauss. Attraverso la progressiva quanto soffocante restituzione di un Pequod sbattuto dalle code dei pescecani – qui il lavoro di Piermatti si dimostra particolarmente prezioso – la platea viene investita della sete di sangue che anima la scena: Magnani veste ora i panni di Palla di Neve, il cuoco della nave, chiamato da Achab a calmare gli squali. È un sermone che si carica del peso di una religiosità ribaltata, che vede il vincolo tra i viventi nell’insaziabile voracità di quegli animali. Lo stesso cuoco è una figura da incubo: appare più come un’entità schizofrenica, una figura sacerdotale e accomodante intenta a richiamare i pescecani alla condivisione e al rispetto reciproco, ma ben presto trasformata in una voce soverchiante, che urla e bestemmia per mettere a tacere. Lo si vede frequentemente, a partire dai continui cambi di ritmo, che inverano quel coinvolgimento del pubblico nella lanterna retta da Magnani: la platea ne è accecata, il lumino si presta a essere un dispositivo che rinforza la percezione di come il cuoco tenti di imporre la violenza della propria parola sulle bestie al di là del palco. Lo spettatore, messo a nudo da questa stessa luce, si rivela scomodo rappresentante di un peccato che intacca la vita intera. Qui l’iperletterarietà del lavoro di Magnani approda armoniosamente alla costruzione di una grammatica di immagini e musica; qualcosa che rimane fuori dal linguaggio e che tuttavia viene riassorbito dalle aporie del medesimo senza intaccarne la struttura.
«Il lontano illumina il vicino», riflette in fondo al suo saggio Lévi-Strauss. Lampante il legame di tale assunto con la creazione presentata all’interno di Da vicino nessuno è normale, il festival curato da Olinda: se si accoglie l’idea che, tra le sezioni di Moby Dick selezionate da Magnani, si trovi proprio nella sequenza dei pescecani il punctum dello spettacolo, allora quella scena letteraria e distante – che acceca lo spettatore come una lanterna – racchiude qualcosa di più che la mera constatazione di essere un unico con la brama degli animali. Ci si ravvede di ciò alla fine, dopo che anche Ismaele pare affondare con il suo equipaggio di dannati: l’autore/attore qui riconduce il monologo fuori dal romanzo, all’esigenza di innestare il suo ragionamento nel reale e di dipartirlo dalle maglie del racconto affinché diventi epos. «Vorrei che si parlasse più d’inferno che di teatro» ammette, come se la presa di coscienza sulla natura dei viventi e di cosa si agiti nella coda dell’occhio di ognuno di noi non possa bastare, quando rimane ancorata alla finzione. E si riscopre la parola, ora sola sul palco, nel tentativo di fornire un messaggio che, invece di suggestionare, vuole comunicare un’urgenza condivisa: gli spettatori sono chiamati ad aggrapparsi a un sentimento solidale, più forte di quello che univa i pescecani. Qualcosa di invisibile che nel muro di luce proiettato dal cuoco è rimasto, come un palpebrio che unisce la platea: un invito ad affrontare la nostra verità umana oltre al teatro, nel mondo.
Leonardo Ravioli
foto di copertina: Marco Parollo
SIAMO TUTTI CANNIBALI. SINFONIA PER L’ABISSO
da Moby Dick di H. Melville
con Roberto Magnani
musiche originali dal vivo Giacomo Piermatti (contrabbasso)
regia del suono Andrea Veneri
residenza artistica Masque Teatro
produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro