Giovanni Boccia Artieri è professore ordinario di Sociologia dei media digitali e Internet studies all’Università di Urbino Carlo Bo. Oggi a Tempo di Libri esplora la figura di Steve Jobs (Maestri – Steve Jobs, Sala Amber 3, ore 11.30). Ne abbiamo approfittato per parlare con lui della rivoluzione digitale e delle trasformazioni che stiamo vivendo, dall’educazione ai meccanismi di fruizione della cultura.

#mondodigitale: perché il tema di oggi è così importante?

Il digitale è una sfida e un’opportunità. È una sfida perché ci spinge all’innovazione degli ambiti più diversi; è un’opportunità da cogliere perché consentirà benefici notevoli all’interno del mercato e nelle relazioni sociali. Questo comporta anche dei rischi in qualche modo contrapposti: da un lato lo sviluppo di una retorica che insiste in modo generico sul «lato oscuro» del mondo digitale, dall’altro l’assenza di un pensiero veramente critico su questo.

A che punto è l’educazione al digitale in Italia?

L’educazione è uno dei pochi ambiti che permette di sviluppare una certa consapevolezza sul tema, senza cadere né nel tecno-scetticismo né nel tecno-ottimismo, e di introdurre il digitale nella vita quotidiana in modo corretto e consapevole. Attualmente, in Italia, l’educazione al digitale è quasi del tutto assente, nel senso che non sono state istituite forme strutturate, anche se fioriscono quelle improvvisate. Questo fenomeno spontaneo è espressione delle esigenze delle famiglie e degli stessi insegnanti, che spesso, nel processo didattico, si trovano a fare i conti con le tecnologie digitali. Ma manca ancora un approccio che integri il mondo del digitale all’interno dell’educazione e lo riconosca come un sapere a tutti gli effetti.

La cultura può convivere con il digitale?

Il digitale è un prodotto culturale. Questo deve essere il punto da cui partire. Non vedo un conflitto, in questo senso, tra la carta e i bit, ma molte possibili forme di integrazione. Ad esempio, nell’epoca del digitale, molte delle informazioni che ci portano alla scoperta di un libro possono passare da discussioni fatte all’interno di spazi virtuali.

Sono trascorsi sette anni dalla morte di Steve Jobs. Qualcuno è riuscito a raccoglierne l’eredità?

A me piace pensare che la sua eredità si sia sparsa nell’aria, un po’ come una distribuzione delle sue ceneri: la sua idea di uno sviluppo tecnologico molto vicino all’uomo, attento a un’estetica d’impatto oltre che all’usabilità, rimane e aleggia, nel bene e nel male. Del resto anche la concezione di un prodotto che non è mai finito ma evolve continuamente si deve in qualche modo a lui. L’eredità di Steve Jobs è proprio questa: ascoltare i bisogni delle persone e progettare una tecnologia che possa rispondervi.

Secondo lei personaggi come Elon Musk o Jeff Bezos hanno ereditato il pensiero di Steve Jobs?                                                                                              

Sono molto dissimili tra loro, quasi antitetici, a mio parere non hanno il livello di ossessione per l’innovazione che aveva Steve Jobs e non interpretano. Sono però quelli che hanno interpretato più compiutamente la soluzione imprenditoriale del digitale, anche se, al momento, non sono riusciti a creare il connubio fra tecnologia e dimensione cerimoniale. Steve Jobs invece ha saputo coltivare questa relazione, a partire proprio dal modo in cui la raccontava negli eventi pubblici o per come si proponeva come primo utente e fruitore della tecnologia sviluppata dai suoi laboratori.

Oggi Internet è gestita da pochi grandi attori, quelli che con un acronimo sono definiti i GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple). Secondo lei c’è spazio per nuovi progetti e nuove energie in futuro, o rischiamo di vedere una rete che, da anarchica e libera, si accentrerà sempre di più intorno a questi gruppi?

Una volta c’erano le Sette Sorelle che detenevano il monopolio del petrolio. I grandi gruppi tecnologici invece monopolizzano i dati – che sono di fatto il nostro nuovo oro nero – su cui gira molta dell’economia contemporanea. Il problema non è tanto lo sviluppo di nuove idee, di nuovi tipi di progetti: piuttosto, il tipo di reazioni che gli Stati hanno e avranno. Penso, ad esempio, al progetto russo di separare la propria Internet dal resto dell’Internet mondiale. Oppure ricordiamoci che, per alcuni Paesi non occidentali, luoghi virtuali come Facebook non sono altrettanto centrali. Immaginiamo anche cosa possa significare una regionalizzazione (per macro-aree territoriali) di queste companies, che probabilmente ora vivono sia del loro monopolio, sia dell’impossibilità di una normativa unitaria che le tratti. Ma nel momento in cui da parte degli Stati cresceranno i tentativi di regolamentazione, si proporrà un problema. La mia domanda è: queste companies verranno smontate in tante organizzazioni dalla progressiva regolamentazione, oppure sarà il pubblico che, attraverso la competizione, determinerà la pluralizzazione e quindi anche la crescita di mercato?

La regionalizzazione di Internet a livello globale, sarebbe un problema. Si potrebbe sviluppare un’incomunicabilità fra culture: quando tutto il sapere è regionalizzato, è visto a senso unico, senza comunicazioni.

Assolutamente sì. Però ha a che fare con il modo in cui i vari Stati affronteranno le normative. Secondo me il vero tema non è se le companies siano giuste o sbagliate, è che mi sembra stiano occupando sempre di più una funzione pubblica. Pensiamo a tutte le polemiche che si legano alla capacità di manipolazione elettorale, dell’orientamento di voto o di pensiero. Nasceranno probabilmente nuove forme di pressione e un bisogno di regolamentazione anche su questo. Se questo frammenterà o meno Internet o che tipo di interoperabilità ci sarà fra una Internet asiatica e una europea non lo sappiamo ancora. Però sappiamo già che la Internet cinese è completamente diversa dalla nostra e che i luoghi che costruiamo e frequentiamo nella nostra Internet e nei nostri social non sono come i loro. Ci sono altre tipologie completamente autoprodotte, autoctone.

Andrea Collivignarelli e Giovanni Montanari

Questo contenuto è parte del laboratorio Fuori_riga, osservatorio critico su Tempo di Libri, a cura di Stratagemmi Prospettive Teatrali.