Franco Fortini: racconti dalla Cina. Fotografie di un viaggio (1955-1971)
Mostra realizzata da Daniela Neri e Stefano Jacoviello per Sienafestival con la collaborazione del Centro Studi Franco Fortini, Rettorato dell’Università degli Studi di Siena

«Se qualcuno mi avesse detto: “Com’è la Cina?”, avrei avuta nella mente una di queste immagini, paesaggi e persone fissati per sempre, falsi come istantanee. La Cina?». Queste parole di Franco Fortini vanno collocate idealmente – insieme al dotto esergo “ufficiale” dal semiologo Yuri Lotman che accoglie i visitatori all’ingresso – a epigrafe della mostra fotografica sul suo viaggio cinese del 1955. False istantanee sigillate da un punto di domanda: come una messa a fuoco non riuscita, anzi impossibile, per la troppa distanza da colmare. Ecco il succo dell’esperienza di Fortini in Cina, nonché quello della mostra intelligentemente curata da Stefano Jacoviello e Daniela Neri. A tal punto intelligente da sapersi liberare della pesante e autorevolissima ipoteca che le gravava in cima: Asia maggiore, il libro-testimonianza pubblicato da Fortini presso Einaudi all’indomani della trasferta asiatica.

Come è avvenuto l’affrancamento, tutt’altro che scontato, da una così ingombrante traccia di ispirazione? Il libro è di quasi 300 pagine e conta poco meno di 20 fotografie. Non stupisce che la mostra abbia ribaltato la proporzione: circa venticinque immagini (radunate per gruppi tematici: dai prodotti dell’arte figurativa alla varietà etniche, dalle abitazioni tradizionali all’organizzazione urbana in stile inglese di Hong Kong) e per ognuna alcune, poche, parole di commento. Qui sta il primo contributo dei curatori, che hanno sì accolto il materiale d’autore, ma l’hanno amalgamato ex novo, secondo priorità del tutto personali. Selezionato un quarto delle duecento foto scattate da Fortini nei giorni della visita (quantità tutt’altro che trascurabile nell’era pre-digitale), sono tornati al libro per ritagliarne brevi passaggi da accostare alle immagini. Non potevano non derivarne cortocircuiti inattesi, visto che il più delle volte il legame frase-foto non è quello proposto a suo tempo dallo scrittore. Chi voglia guardarla e leggerla così, troverà nella mostra una recensione impertinente, per non dire piratesca, di Asia maggiore.

Ma non è tutto. Perché la questione principale, non eludibile, infine è un’altra: in questi giorni, in una sala al pian terreno del Rettorato dell’Ateneo senese, che cosa impariamo del viaggio fortiniano? La risposta deve essere chiara: poco o nulla. Quello esposto è il viaggio dei curatori, non più quello originario. Qui sta il pregio maggiore dell’operazione. Nel coraggio di trascinare la Cina targata Fortini-1955 nella realtà del 2012, mettendo le proprie intenzioni a fianco, e se è il caso oltre, a quelle fortiniane. Il punto di partenza consiste nella condivisione dei princìpi fondanti del discorso, cinese e non, di Fortini; e tanto più il nostro vero presente sembra vi si allontani, tanto più quei princìpi ci sembrano veri e nostri. Ma il congegno artistico-intellettuale che questa mostra vuole essere non rievoca un viaggio attraverso la rivoluzione cinese così come lo si poteva intendere sessant’anni fa: cioè con la speranza – affermata a chiare lettere in Asia maggiore che «non sia rimandato ai nostri nipoti il giorno in cui non già delegazioni nostre si recheranno a visitare le rivoluzioni altrui, ma quelle degli altri paesi a visitare la nostra». Davvero non è questo il punto oggi, non questa la prospettiva con cui guardiamo a Oriente.

La mostra rispetta invece una più profonda fedeltà, che potremmo chiamare metodologica, se è vero che anche lo stesso Fortini – a cui la Cina sembrò un mondo «totalmente altro» e indecifrabile, così come a noi oggi appare enigmatica la sua Cina – ha saputo e voluto ragionarne soltanto in «un continuo contrappunto con l’Italia» del proprio tempo. Di questo siamo grati anzitutto al lavoro di Jacoviello e Neri: di avere mostrato quanto sia proficuo il contatto con l’eredità fortiniana anche da parte di chi l’attraversi su vie meno battute, non senza piegarne almeno la superficie ai propri fini per orientarsi in un nuovo spazio. Sarà questo il modo per rimetterla in circolo, per non lasciarla chiusa a doppio giro di chiave, imbalsamata e disinnescata nella vetrina delle biblioteche e dei convegni o al limite nel circuito dei remainders? Fin troppo facile rispondere di sì.

Luca Daino