di August Strindberg
regia di Valter Malosti
visto al Teatro Eliseo di Roma _ 11-26 Febbraio.
Se non fosse per la prefazione – dove si registra non solo un punto di snodo della poetica, ma soprattutto un fotogramma dell’irrequieta storia della scena teatrale di quegli anni – Signorina Giulia, scritto nel 1888, letto oggi, rischierebbe di apparire come un testo minore di August Strindberg. Un pamphlet moralistico con il quale il drammaturgo scandinavo non solo sperimenta nuove forme per temi conosciuti, ma soprattutto mette sotto scacco un certo tipo di umanità. È la natura umana, punto di riferimento dello svedese proprio nel citato scritto che anticipa il testo, ad essere messa sotto la lente d’ingrandimento: i rapporti tra i sessi e tra le classi sociali, le pulsioni che muovono gli spiriti e i corpi.
Da questo punto di vista la messinscena di Valter Malosti, prodotta dal Teatro Stabile di Torino, è rispettosa del testo, forse anche troppo. Sul palco ad agitare le anime strindberghiane troviamo lo stesso Malosti nei panni di Giovanni (servitore del conte), Federica Fracassi è Cristina (la cuoca) e a Valeria Solarino l’arduo compito di giocarsi il ruolo della tragica figlia del conte Giulia. Da una parte Malosti lavora sul testo in modo semplice e diretto senza tagli o evidenti modifiche, le battute scorrono fluide nel suo adattamento (con la consulenza linguistica di Maria Strachini Truedsson) e le scene sono costruite rispettando quasi integralmente le didascalie dell’autore – con la scenografia di sghembo di cui vengono mostrate solo alcune mura della pianta, un pavimento scosceso, il tavolo in legno, le scale che portano alla porta di ingresso e a destra il cucinino di Cristina in un ambiente separato e buio. Allo stesso tempo però il regista torinese calca la mano sulla costruzione dei personaggi e sull’esasperazione di atmosfere, azioni e sentimenti, anche grazie allo stile che lo contraddistingue. Il suo Giovanni è un uomo risoluto capace di cogliere le minime occasioni che il vento gli porta e vede subito nelle grazie della giovane Giulia una possibilità per il futuro, un capitale con cui affrancarsi dalla sua condizione sociale, teme solo il conte, di fronte al quale scatta come un soldatino. Veste interamente in pelle, dai pantaloni al trench ed è uno smargiasso di prima categoria. Cristina sarebbe innamorata di lui se non fosse per la sua pessima condotta. Federica Fracassi le conferisce quello spessore insperato dallo stesso Strindberg – che la relega a ruolo di personaggio solo abbozzato tutto casa e chiesa. Malosti colora anche in questo caso, forse esagerando con un pesante accento torinese non totalmente giustificato, ma le conferisce una doppia anima: le risveglia i sensi attirandola nella stessa trappola di lussuria in cui cade la contessina. Infine lei, la signorina Giulia di Valeria Solarino. È soprattutto qui che lo spettacolo sfugge via dalle mani del regista: si intravedono i contorni di una costruzione, la fisicità debordante e mascolina di una ragazza tirata su dalla madre come un uomo, la femminilità che esplode come un’arma per lei e per chi le sta intorno e poi quell’onore, unica salvezza aristocratica contro l’omologazione borghese, che la condurrà verso il tragico e romantico finale. Tratti riconoscibili certo ma solo abbozzati in una performance purtroppo quasi mai all’altezza del ruolo. Valeria Solarino, trattiene il dolore come un ossesso, blocca la rabbia in gola oppure si atteggia a vamp monocorde.
Poi c’è il teatro di Malosti, l’amplificazione dei rumori, il riverbero su alcune voci, le luci acide che nei momenti di tensione fanno mutare il segno cromatico della scena, il viola, il verde. Infine il sangue: mentre nel finale scritto dall’autore la violenza avviene fuori scena, qui il rosso illumina il corpo della Signorina distesa sul tavolo con la testa ribaltata verso il pubblico in un atto sacrificale votato alla salvaguardia della morale sociale. Anche se la grammatica del linguaggio di Malosti tende quasi a contraddire il carico morale (si veda l’incubo autoerotico di Cristina) o addirittura a parodiarlo (nel gioco di finzione che rappresenta il sangue con la luce o nella musica di cui in lontananza ci arrivano i bassi techno), è la spinta verso la “nostra” morale a mancare.
Qual’è l’urgenza del testo in questo momento storico? La lotta tra i sessi si conduce ancora nei termini raccontati da Strindberg? Qual’è la reazione interna dello spettatore di oggi? Non pensiamo di certo che il teatro debba insegnare, non è più il suo ruolo, rimane però fortissimo il suono delle parole di Strindberg a questo proposito, ancora una volta tratte dalla prefazione al testo: “Già da gran tempo vado pensando che il teatro, come generalmente ogni espressione d’arte, sia una Bibita pauperum; una bibbia illustrata ad uso di coloro che non sanno leggere né la parola scritta né quella stampata. Penso inoltre che il drammaturgo non sia altro che un predicatore laico che espone, in forma popolare, le idee del suo tempo”.
Andrea Pocosgnich
Questo contenuto è parte del progetto Situazione critica
in collaborazione con Teatro e critica