32 secondi e 16
di Michele Santeramo
regia Serena Sinigaglia / ATIR TEATRO RINGHIERA
Quella di Samia Yusuf Omar, per Michele Santeramo e Serena Sinigaglia, ė “una tra le tante storie finite in mare”. La vicenda dell’atleta somala – riportata dai media e poi raccontata nel libro di Giuseppe Catozzella Non dirmi che hai paura – diventa allora un pretesto che porta a una riflessione universale sull’accoglienza e sul conflitto tra i popoli, che può essere rappresentata in un’immagine simbolo dell’indifferenza dei molti.
Lo spettacolo, scritto da Santeramo per la regia di Sinigaglia, si struttura in due parti. La prima ci racconta la storia di Samia, dagli allenamenti notturni a Mogadiscio al viaggio a Pechino per le Olimpiadi del 2008, dove la ragazza corre per i duecento metri facendo un tempo infinitamente più lungo delle altre concorrenti. Sono quei trentadue secondi e sedici primi che danno il titolo allo spettacolo: un tempo che diventa uno dei punti di appoggio del testo come limite tra il prima e il dopo ma anche come frammento che nella sua minima durata si dilata fino a diventare eterno. Il metaforico podio sul palco (pensato da Stefano Zullo) ci ricorda che in palio, in questa gara, c’è ben altro che una semplice vittoria agonistica.
Il “dopo” per Samia è l’inseguimento di un futuro lontano da Mogadiscio alla ricerca di una carriera da atleta in Europa. Per questo inizia a correre, in viaggio verso Addis Abeba, Bengasi, Cufra, Tripoli e poi il mare.
Se fin qui è la dimensione narrativa a prevalere, nella seconda parte, “L’isola”, naufraghiamo sul terreno dell’immaginario e Samia sembra scomparire. Due fratelli – pescatori di cadaveri e ultimi superstiti di un mondo che credono estinto – sperano di “fare l’umanità” attraverso il loro rapporto incestuoso, tra mucchi di morti e fetore. Una visione che rappresenta il tentativo di allontanarsi dal puro racconto per aprire una riflessione sulle responsabilità dei singoli e l’indifferenza di fronte a una tragedia sempre più universale. La scelta è ambiziosa, anche perché porta lo spettacolo ad allontanarsi da una dimensione narrativa e da una vicenda con un potenziale emotivo molto forte per avvicinarsi a un livello metafisico, restituito in un registro, anche interpretativo, che ne carica il versante grottesco e surreale. In questa prima presentazione le due parti sembrano non dialogare e il potenziale dei temi e delle riflessioni messi in campo, così come del doppio registro della messa in scena, restano ancora da assestare. Ma la presentazione di questo lavoro – oltretutto in un contesto come quello di Primavera dei teatri – è da leggere come fase di un percorso artistico che non rinuncia alle sfide, tanto nella ricerca di un messaggio forte e concreto quanto in quella di un linguaggio, e che potrà trovare maggiore coesione nelle prossime tappe.
Francesca Serrazanetti