Chi sale su un palco propone al pubblico un patto. Chiunque organizzi uno spettacolo implicitamente promette: “spendi un’ora (o due) del tuo tempo a guardarmi, ad ascoltare quel che ti dico. Ne varrà la pena”. Ma ne vale davvero sempre la pena? Perché mai qualcuno dovrebbe dedicare il suo tempo a chi inscena uno spettacolo teatrale? È un interrogativo fondamentale, con cui ciascun teatrante dovrebbe confrontarsi. Lo è per Fulvio Vanacore, tra i fondatori del Collettivo Snaporaz, secondo cui ogni singolo atto teatrale richiede, innanzitutto, un’assunzione di responsabilità. È questo, spiega, il valore principale da attribuire allo statuto del collettivo: il richiamo reciproco a un impegno consapevole, necessario e mai ‘gratuito’. Il lavoro di un collettivo si svolge infatti in un continuo ping-pong di domande e richiami, di dubbi e proposte, che portano i componenti a rimettersi continuamente in discussione. L’obiettivo non è più la realizzazione di un’idea autoriale individuale, la proiezione di un disegno premeditato autonomamente: si tenta piuttosto la strada della ricerca comune, stimolata dal dialogo continuo e – perché no? – anche dai numerosi conflitti e bisticci. Una ricerca lunga, difficile, che si arricchisce per contaminazione reciproca, per ‘contagio’: un’indagine che mira a raccogliere dati, a dare testimonianza delle più diverse esperienze. Perché – come precisa Noemi Bresciani, danzatrice di Fattoria Vittadini oltre che di Snaporaz – l’identità si compone degli incontri con gli altri, dei riflessi. E quale miglior luogo per raccogliere questi riflessi, di uno spazio di lavoro e sperimentazione comune quale può essere quello di un collettivo teatrale? Avviene così un decentramento dell’obiettivo, che non si focalizza più sulla figura del regista-autore, ma sullo spazio di lavoro, il “terreno di gioco”, attorno a cui si concentrano i diversi componenti del gruppo. Ciascuno con le sue competenze: ognuno di loro è infatti chiamato a confrontarsi con tutti i singoli passaggi della costruzione di uno spettacolo, ma è chiaro – precisa ancora Vanacore – che in ultima sede il lavoro va riconsegnato, di volta in volta, alle mani ‘dell’esperto del settore’ (drammaturgo, regista, coreografo che sia) e sarà questi, tenendo conto degli elementi emersi nel dialogo con gli altri, che avrà poi il compito di tracciare un disegno definito, di inscrivere i frammenti in un mosaico preciso. È percorrendo questa via che i collettivi teatrali sembrano voler proporre una nuova forma di autorialità – o forse solo riproporla nella sua forma più naturale, più autentica, in equilibrio tra esigenza di un impegno comune e valorizzazione della competenza professionale del singolo (non è un caso che Fattoria Vittadini si sia rivolta anche a coreografi affermati quali Maya Weinberg e il duo dei Matanicola). La forma più autentica: perché un atto teatrale si situa sempre al bivio tra il singolo e la collettività, tra la solitudine e la condivisione. Un gesto teatrale – per citare Peter Brook – è sempre “affermazione, espressione, comunicazione e anche manifestazione personale di solitudine, che però, quando il contatto è stabilito, implica una condivisione della propria esperienza”.
Gianmarco Bizzarri