di e con Cesar Brie
visto al Teatro Filodrammatici di Milano_ 7-9 Febbraio 2013
Il Flaco è morto, arriveranno amici e parenti a compiangerlo a breve.
Intanto, a vegliare, c’è un uomo che ha acceso tutte le candele disposte a cerchio intorno al letto e che inizia a parlargli, gli dà del Tu. Forse è un amico di infanzia.
Ma no, non è un amico: è lui, è il Flaco in persona! Basta poco, infatti, per riconoscere nella foto che troneggia sopra il letto di morte il volto di quest’uomo che si aggira sulla scena e che, nel corso dello spettacolo, si vestirà con gli abiti adagiati sul letto, i suoi pantaloni e la sua giacca, i vestiti di lui che è ora salma di se stesso.
Il Flaco inizia così a raccontare di sé, ma sempre dandosi del Tu, che per Lacan era il modo in cui l’inconscio parlava con se stesso: una misura di difesa, un’arma di maggior sincerità. Si riappropria della sua infanzia, il Flaco, della sua adolescenza, delle prime scorribande in compagnia e dell’iniziazione sessuale che si è costruito da solo; fa i conti con il padre, assente e poi morente, con la passione politica per ‘gli oppressi’ destinata a fallire, costringendolo a inventarsi burattinaio. Narra poi l’amore per Lei, l’unica che non lo voleva, quella che amava tanto da non sopportarne la pietà, una pietà che l’ha insieme guarito e fatto morire.
La vita del Flaco è stata la vita di un naïf, di uno che forse è rimasto bambino (“un uomo non è che un bambino a cui è caduta addosso una montagna di anni”, ama dire): ed è proprio questa sottile ingenuità che consente al racconto di essere crudele senza perdere morbidezza, senza rimorsi né rimpianti, con toccanti stoccate di ironia, ché tutto è ormai andato e l’anima non può più fare nulla se non raccontarsi con quanta più possibile verità.
La confessione permette al Flaco di rivestirsi metaforicamente alla sua anima, di chiudere i conti in sospeso con la sua vita passata e avviarsi alla soglia finale sedotta da una voce viva che canta una ninna nanna.
Cesar Brie si muove nella surrealtà di una veglia funebre che è un po’ festa, con biscotti da sgranocchiare a ogni confessione di vita, candele nelle scarpe, caramelle colorate da lanciare in aria e bandierine da cocktail da far planare come sogni andati, mentre una fisarmonica suona musiche allegre e musiche tristi. I minuti oggetti in scena sono utilizzati a volte come eco rituale della parola e sono simbolo che sempre muta, creando una dimensione fluida, in cui ogni cosa è se stessa e insieme qualcosa d’altro, come in un sogno.
Immerso in questa fluidità e complice una drammaturgia molto semplice e piana, il ritmo dello spettacolo si fa lieve, senza picchi né scossoni. Lo spettatore è invitato a prender parte all’intimità di un’anima che si racconta a se stessa con calore, con comprensione, senza il peso di alcun giudizio: il registro è quotidiano, colloquiale, ma non senza poesia. Nonostante il testo non si faccia ricordare per una eccezionale potenza espressiva e l’utilizzo degli oggetti di scena possa apparire talvolta ridondante, l’avvolgente recitazione di Brie e la fedeltà lungo l’arco dello spettacolo alla volontà di raccontare di una vita dal punto estremo della morte conferisce coerenza e senso di unitarietà allo spettacolo intero.
Gloria Frigerio