di Vincenzo Schino
visto al Crt di Milano_14-19 Febbraio

Lo spettacolo di Vincenzo Schino incuriosirebbe di certo David Lynch. Al maestro fanno pensare le atmosfere rarefatte, le immagini che si sciolgono l’una nell’altra senza soluzione di continuità, l’assenza di connessioni logiche.
I due punti di partenza del lavoro – realizzato in coproduzione con Kilowatt Festival e Festival delle Colline Torinesi – sono la pittura nera di Francisco Goya e il Macbeth shakespeariano. I riferimenti si mescolano e si confondono, alcuni più persistenti di altri: torna ossessiva l’immagine della corona, simbolo di una regalità tormentata e sanguinosa, mentre si aggira per la scena l’inquietante figura di un infante vestito di rosso, ispirato al Manuel Osorio di Goya. Ma sono evocazioni senza pretesa di organicità, come ricordi lontani e fuori contesto che la mente riproduce nel suo maremagnum onirico. A chi non sappia del pittore e del bardo, forse non verranno in mente proprio loro, ma poco importa: è legittimo leggere con libertà il tessuto dei sogni. La nota dominante (ancor più che all’anteprima vista al Pim Off di Milano, nel Novembre 2010) è un’angoscia sotterranea e divorante che percorre l’intero lavoro. Sono i suoni in primis ad andare in questa direzione: l’acqua che scende, come un temporale fuori dalla finestra, uno strisciare metallico e un silenzio attutito, un galoppare di cavalli, e poi improvvisi urli lancinanti, che paiono provenire dal fondo della coscienza.

Schino indaga le caratteristiche del mondo onirico e ne fa una strategia di composizione scenica: la ripetitività ipnotica delle azioni (un uomo continua a cadere dal letto, e a salirvi di nuovo), il silenzioso sbigottimento che accompagna gesti senza ragione né significato (una figura estrae da un lavandino capelli che diverranno sotto i suoi occhi un’infinita e disgustosa matassa), la mancanza di contorni dei personaggi, che mostrano fattezze ambigue (gli uomini incoronati si muovono per il palco come animali lenti e guardinghi; l’infante gioca e parla, ma pare una qualche entità metafisica piuttosto che umana; un essere dal cappuccio rosso e dall’aspetto mefistofelico guarda silenzioso tutta l’azione). Infine, anche il tempo dello spettacolo è quello del sogno: un lungo pendolo ondeggia in proscenio, evidenziando che il diaframma che separa attori e spettatori è prima temporale che spaziale.
Certo il curato lavoro del gruppo Opera va nella direzione di tanto teatro performativo e visuale che ha invaso i festival italiani delle scorse stagioni (e che, nel suo abuso, ha un po’ stancato alcuni addetti ai lavori): ma Sonno si distingue per coerenza interna, per una impeccabile precisione di immagine e per un solida indagine pittorica. Le tele che ritraggono volti pensosi e accigliati, firmate da Pierluca Cetera, vengono animate, frugate e scavate da una luce che è parte integrante della polifonica drammaturgia.
Schino offre un viaggio assai suggestivo, per lo spettatore che abbia voglia di seguirlo senza fare troppe domande. Chi resta con i piedi a terra invece è perduto: se non si accetta il codice, il percorso non può che apparire illogico e noioso. Il rischio è accentuato da una certa uniformità di ritmo e di tono: forse, come insegna proprio il lavoro di Lynch, il tentativo di una più consistente variazione interna avrebbe giovato. Ma Vincenzo Schino pare essersi assunto il rischio con consapevolezza e, a giudicare dai riscontri ottenuti, non ha avuto torto.

Maddalena Giovannelli