Parafrasando uno dei film più noti della produzione felliniana, si potrebbe dire che il nulla è di gran lunga preferibile se ci è impossibile avere il tutto. E così, anche nel finale di Sonosarò, primo spettacolo della giovane Compagnia La Lucina: sul palco c’è il vuoto.
Nell’ora precedente gli spettatori sono stati messi a dura prova. Lo spettacolo procede a singhiozzi. Se per un attimo sembra di poter cogliere un filo, ecco che questo subito si spezza o s’ingarbuglia. Come in un sogno, figure sconosciute emergono dal buio per poi riprecipitarvi senza dare spiegazioni. Intensi monologhi sembrano rivelarci qualcosa di definitivo, ma al tempo stesso non sapremmo dire con certezza di che cosa si tratti. Corpi si dibattono sotto fasci di luce intermittenti. E poi video grotteschi, sonorità infernali, uomini intrappolati in teli d’ombra, divinità arcaiche e luminose. Si cerca di fare uno sforzo, di comporre in un senso tutto questo materiale. Ma non si riesce.
Perché questa è la condizione dell’uomo contemporaneo, condannato a una percezione frammentaria e incompleta. Se riusciamo ad afferrare qualcosa è necessariamente qualcosa di parziale, di mancante. Ciò suscita angoscia nei personaggi, che si interrogano affannosamente sul senso dell’esistenza e sulla direzione che sta prendendo l’umanità. È una domanda in particolare a rimanere impressa, a continuare a tormentare chi ormai ha lasciato la sala: “A quale nuova specie stiamo dando vita?” E la risposta – spaventosa – sembra essere nelle figure bestiali che vengono continuamente descritte: mostruose, irsute.
Quindi, nulla. A un mondo che non si può afferrare, a un’umanità ferina è preferibile questo nulla, questo vuoto conclusivo. Questo “increato” – come dice la voce calda e commossa, ma al tempo stesso decisa e consapevole, che parla nel finale. E se si tratti di morte o qualcos’altro poco importa.
Andrea Maletto