Quale immagine ti è rimasta impressa di questo spettacolo?

Federica – Il momento in cui l’attrice entra in scena con una nuvola di cellofan sulla testa. Perché era in una strana sintonia con gli altri performer che, invece, erano vestiti di nero: erano molto contrastanti. Facevano pochi movimenti appena accennati, ma questo “poco” restituiva l’armonia nel contrasto.

Caterina – I monologhi sono la parte che mi ha più colpita. Ma quello che ho più apprezzato di tutto lo spettacolo è stata la capacità di trasformazione: da una parte più cruda si è passati a una parte più poetica e speranzosa. Una speranza che però può essere intesa su livelli diversi: in senso più drastico, come speranza dell’annullamento, della morte, o in senso più sereno come liberazione dalle proprie angosce o dalle maschere che si indossano.

Quali parole useresti per descrivere questo spettacolo?

Federica – Sicuramente “luce” e “buio”, per il contrasto continuo che caratterizza lo spettacolo. E poi un tentativo di “volo”, che ho percepito all’inizio nel primo monologo quando l’attrice, incantata, osserva il volo degli uccelli nel cielo, e anche nella conclusione in cui parla dell’abbraccio dove, librandosi, vorrebbe ritornare.

A cura di Lidia Melegoni e Veronica Polverelli