Un corpo come di gabbiano si libra in aria su un mare di petrolio distendendo le ali traballanti: è la danzatrice Sara Orselli che si muove su un pavimento coperto da sacchetti neri accartocciati. Vi si immerge, si rotola, sbatte le braccia e sposta la plastica intorno a sè, alla ricerca di qualcosa che la possa liberare.

Still there è il titolo della performance firmata Simona Bucci: ad essere“ancora là” sono i corpi dei due danzatori, a ripetere nello spazio movimenti ciclici affannati e contradditori. I gesti sono infatti ripetuti a vari ritmi, come a dire che la quotidianità ha un bisogno costante di riappropriazione. «Che cosa libera le forme già conosciute del nostro corpo?» Sembra chiedersi e chiederci la Bucci. Non ci son risposte. Ma la scena problematizza la questione. L’immaginario è catastrofico: il corpo della prima performer si trova da solo, disperso, desolato e ancora una volta è come se debba ricominciare qualcosa da capo, riconquistando, pezzo dopo pezzo,forme insite nella sua memoria ma andate perdute. Il “gabbiano” chiede aiuto e l’entrata in scena di un secondo performer, Riccardo Meneghini, sembra rispondere a questa domanda. I due vanno a formare nella desolazione un cerchio vuoto al centro della stanza: i sacchetti si sollevano allo sbattere delle “ali” dei due che sembrano voler far spazio a qualcosa.

La luce, dai toni soffusi dell’inizio, si fa più intensa e la musica aumenta come a promettere un incontro. Eppure i due si cercano ma non si trovano: le loro traiettorie si avvicinano come per toccarsi ma in realtà non sembra essere possibile alcun dialogo,il loro sguardo si perde nel mare che li circonda e nel cielo a cui spesso alludono con gli occhi rivolti in alto. Come se, in fondo, l’ipotesi che il compagno possa esser soluzione alla loro ricerca non sia nemmeno contemplata: un corpo estraneo non può essere risposta a un affanno personale, privato. Rimangono tra le mani solo dei brandelli lacerati di suolo che i due si passano sulle braccia come a volersi lavare, come a cercare di tatuare sulla pelle qualcosa, ma neppure la concretezza di quella carne riesce a soddisfare il loro bisogno. E il finale avvalora la tesi. A riproporre la stessa ciclicità, rimane in scena il secondo performer: abbandonato a sé, ricomincia la sua ricerca di risposte, in una condizione umana che rimane, immutabilmente, desolata.

Giulia Villa


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