«Mica è facile uccidere. È molto più facile morire che uccidere»: ecco la constatazione che Goneril e Regan consegnano agli spettatori, poco prima di invitarli ad assassinarsi a vicenda. È, questo, un momento in grado di restituire la temperatura emotiva e drammaturgica di Lei Lear, la creazione – coproduzione Scarti, Teatro C’Art e Muchas Gracias – che tramuta l’equilibrio sottile di due voci in una conversazione all’unisono. Chiara Fenizi e Julieta Marocco, uniche interpreti dello spettacolo, danno vita a un’opera in cui non solo le parole si mescolano e sovrappongono, ma nella quale i corpi stessi si fanno speculari, e il passo di un’attrice scandisce il passo della sua controparte. È così che le figlie malvagie di Re Lear decidono di raccontarsi al pubblico, attraversando a braccetto un non luogo, uno spazio indefinito contraddistinto da un’atmosfera di perenne attesa, mossa da litigi e paure di punizioni paterne, animata finanche da balli sfrenati. Per riuscire nel proprio intrigo, o forse nella narrazione della loro storia, cospirano con il pubblico in sala, dapprima involontario capro espiatorio, in seguito testimone e complice della vicenda. Lo spettatore è creta malleabile nelle mani delle due attrici, accompagnato dentro la scena anche se mai presente fisicamente sul palco.
Fenizi e Marocco scherzano e dialogano con la platea, senza mai aspettarsi una risposta; Goneril e Regan – è difficile dire dove inizi una e finisca l’altra – calcano la scena del Lavoratorio trasportando il capolavoro del Bardo in universo cristallizzato. Tutto resta sempre uguale a sé stesso, tutto è dominato da una ripetizione infinita e malinconica: esito, questo, di un’immersione delle architetture shakespeariane in un paesaggio beckettiano. La figura assente e incombente del padre, rievocata da un faretto che illumina il palco dall’alto, richiama così alla memoria Godot: e le due perfide protagoniste stanno forse aspettando una reazione, un gesto, un’esplosione di collera. Un castigo che sembra tardare ad arrivare, ma che ci dona l’impressione di essere sempre sotto scacco.
La scrittura sembra trascinarsi con intelligenza, avviluppandosi su sé stessa al punto da far sembrare Goneril e Regan le comiche pedine di una vicenda troppo grande per loro, vittime e carnefici del loro stesso destino. Unite da un filo invisibile, bramano un’emancipazione: quella in cui le loro voci non risuoneranno in un’unica eco cacofonica. E la libertà assume forse la forma di un ballo scatenato e scoordinato, nel quale la musica costituisce l’atto di ribellione a una stereotipia imposta: finalmente vediamo due figure che non procedono più in sincrono, ma sono pronte a esplorare nuove forme espressive, antitetiche alla sensazione di oppressione data dall’ambientazione quasi claustrofobica. Scena dopo scena la sensazione di incertezza si intensifica: ecco Goneril e Regan interrogarsi su quale sia la realtà, eccole dimostrare un primo barlume di lucidità, e domandarsi se quello che stanno affrontando sia vita o morte.
Goffamente, e in maniera macchiettistica, le due donne fanno della battuta irriverente il loro marchio distintivo, appropriandosi del palcoscenico con gusto per il nonsense e attraversando scene che a un primo impatto paiono scollegate tra loro. Le stesse sequenze sembrano giunte in loro soccorso, facilitando una separazione che Goneril e Regan hanno agognato per tutto lo spettacolo, ma mai ottenuto. A posteriori, sembrano esistere per ricordare la cosa più importante: laddove non esiste possibilità non ci resta che giocare!
Francesca Rallo
in copertina: foto ufficio stampa
LEI LEAR
di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco
regia André Casaca, Chiara Fenizi e Julieta Marocco
consultor Francesco Ferrieri
coproduzione Scarti, Teatro C’Art e Muchas Gracias
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #2