Se passate in via Tajani, proprio dove termina il 5, troverete tra la schiera di condomini un cancello nero a cui è affissa una piccola N. L’Attrezzeria Negroni si introduce così, mostrandosi subito come un luogo nascosto nella metropoli. Eliana Negroni ci spiega come la sua attività, avviata dal padre negli anni ’60, sia stata una testimone silenziosa della genesi del quartiere stesso. In origine lo spazio era dall’altra parte della strada, quando questa non era altro che un’anonima estensione di via Amedeo. Nonostante l’iniziale anonimato, questa è una zona che gradualmente è passata da periferia a centro residenziale di Cistà. Oggi è ancora in continua trasformazione e questa vecchia officina si propone come centro culturale che dal 13 al 19 giugno farà da scenario per alcuni degli eventi del FringeMI.
Cos’è oggi l’Attrezzeria Negroni e come si inserisce questo spazio nel quartiere?
L’Attrezzeria è sempre stata un contesto lavorativo specializzato e per questo motivo, soprattutto oggi che la sua funzione originale è in disuso, sto cercando di portare avanti un rinnovamento. Basti pensare a come le bande che ci permettevano di fare delle produzioni in serie adesso servono per ottenere dei pezzi unici: c’è stato un capovolgimento del concetto di serialità e ad oggi queste tecniche sono diventate tra le poche che richiamano un lavoro manuale e che resistono alla digitalizzazione. Oltre a ciò, vogliamo reinserire questo spazio nel quartiere in modi innovativi.
L’incontro con l’associazione Cistà è stato fondamentale, perché collaboriamo sotto diversi punti di vista e una volta al mese l’officina diventa sede associativa. Io a mia volta sono presidente di un’altra associazione del gioiello contemporaneo, poi cerco di portare qui workshop ed eventi di iniziative come Book city, Archivissima e ora il FringeMi. Quello che voglio fare è mettere a disposizione una conoscenza, perché per far funzionare una realtà come questa bisogna cercare di ibridare i settori. Tutto tende a contaminarsi: anche il teatro viene incontro a degli sperimentalismi sempre nuovi. Infatti, la proposta di ospitare una performance – una delle vocazioni principali di Cistà – mi ha interessato fin da subito: ho già visto come questo sfondo (l’opificio, ndr) abbia aiutato nelle interazioni con il pubblico, che si trova a essere incuriosito da questa “scena naturale”.
Sono la prima a voler assistere a come un attore professionista riesca a mettere in dialogo uno spettacolo che parla delle problematiche del lavoro e l’attrezzeria nello sfondo. Pensiamo che questo modo di comunicare con il teatro sia quello giusto per coinvolgere le persone: questo quartiere, al 100% residenziale, ha bisogno che la gente esca di casa sapendo di poter rimanere in zona.
Facendo un parallelismo tra questo avanzamento tecnologico dell’Attrezzeria e il quartiere stesso, quasi fossero andati avanti di pari passo, quale pensa che sia la direzione attualmente condivisa?
Ho vissuto in questo quartiere tutta la gioventù fino a che ho dovuto mettere su famiglia; quando c’è stato da guardare al bilancio abbiamo avuto bisogno di andare sempre più fuori. Tornando dopo una ventina d’anni, mi sono resa conto quanto la cintura periferica di Milano fosse cambiata. C’è l’esigenza di luoghi di aggregazione, vivi al di là delle proprie case: e tuttavia, per quanto io non sia sempre in città, vedo una grande carenza, soprattutto in questa zona. A luglio 2020, cercando di analizzare le attività del territorio, ci siamo resi conto di quante poche fossero le realtà e soprattutto divise. A viale Argonne andiamo già in zona 4, mentre verso porta Venezia, dove dovrebbe continuare la zona 3, non vogliono mischiarsi con noi (nemmeno nei gruppi facebook!). Via Tajani è proprio un confine, cosa che fa sorridere: nei paesi più piccoli, quelli che non si vogliono mischiare con gli esterni, si incorre nel medesimo pericolo, che invece nella metropoli dovrebbe essere maggiormente superabile grazie alle nuove generazioni. Lo stesso festival fa vedere come il Fringe, a partire da un quartiere, si sia allargato ad altri: le divisioni diventano così solamente geografiche, ma è giusto seguire una logica di condivisione.
Da chi è popolato Cistà e cosa cercano le persone che ci vivono?
In questo quartiere siamo ancora alla ricerca della nostra identità. Innanzitutto c’è un problema residenziale, dato che questa zona, Città Studi, è tendente alla frequentazione degli studenti, risulta inevitabile una turnazione di abitanti e di generazioni. Chi viene a Cistà, anche se all’inizio solo temporaneamente, in seguito, dopo gli studi, decide di stanziarsi e stabilizzarsi qui. Tra le generazioni che passano sta cambiando la posizione dei residenti, che ora sono più attenti e interessati a “vivificare” il quartiere.
La mia è una sensazione, eppure da quando la mia matrice lavorativa si è spostata qua e ho iniziato a partecipare alle iniziative culturali, mi sono resa conto di come anche i pensionati fondatori del quartiere sono interessati al rilancio. L’importazione di residenti e gli abitanti già stanziati qui hanno dato vita ad un mix generazionale e culturale che ha intrecciato i vari punti di vista.
Immagina che fra quarant’anni sarai la regista di un film dedicato al tuo quartiere: come inizia?
Inizierei con l’immagine di un disegno di un mappamondo su un marciapiede. Mi immagino che, tra quarant’anni, tutta questa superficie d’asfalto venga modificata e diventi verde. Mi aspetto e spero che la parte lastricata, che è molto ampia e mal utilizzata, i marciapiedi enormi, i viali immensi che sono solo cemento, diventino spazio verde e che l’assetto urbano venga completamente modificato.
Leonardo Ravioli, Francesca Rigato