Oltre a essere la prima esportatrice d’Europa di piante aromatiche, Albenga è la cittadina ligure sede di Kronoteatro, associazione teatrale che da ben tredici anni organizza il festival Terreni Creativi, caratterizzato da un legame indissolubile con il territorio. Non a caso, infatti, gli spettacoli e gli eventi della rassegna si svolgono proprio nelle serre della zona.
Tribù, titolo dell’edizione 2022, esplicita la volontà di Terreni Creativi di segnalare la presenza di un gruppo forte, sentito e coeso. Questa comunità si raccoglie ogni anno intorno alla proposta multidisciplinare avanzata dal festival e che comprende teatro, danza, musica, presentazione di libri e attività laboratoriali.
Incontrare il direttore artistico Maurizio Sguotti è stato fondamentale per comprendere appieno il significato più profondo legato alla scelta di questo titolo: «Fin da quando è iniziato il nostro lavoro sul territorio di Albenga, l’obiettivo è sempre stato quello di creare una collettività caratterizzata dalla voglia di fare parte di una sorta di ‘piccola riserva’, dove spettatori e artisti insieme, in dialogo reciproco, potessero far davvero crescere un progetto condiviso. Oggi sentiamo che, in qualche modo, la nostra tribù ha raggiunto una conformazione ben definita, e ci sembra giusto, per questo, omaggiarla così». Le parole di Sguotti sottolineano, quindi, come la scelta del termine “tribù” veicoli l’idea di un riconoscimento pubblico di questa pluriennale relazione tra spettatori e artisti, legati da un’interazione costante intorno alla scena contemporanea e alle sue forme. E la tribù di Terreni Creativi ha dimostrato, quest’anno forse più che mai, la volontà di mantenere vivo un luogo di incontro umano e di confronto creativo legato alla realtà del festival: dopo la notizia dell’esclusione dai finanziamenti ministeriali del FUS, arrivata non molti giorni prima dell’inizio della programmazione, Kronoteatro ha indetto una raccolta fondi per sostenere l’edizione 2022: soltanto la comunità – la tribù – ha permesso di poterla comunque realizzare.
L’importanza attribuita alla relazione con il pubblico ha guidato anche la configurazione del cartellone. Ricorda Sguotti: «la scelta di presentare alcuni artisti – Giuseppe Cutino, Teatro dei Borgia, Francesca Foscarini, Bartolini/Baronio – attraverso le loro ‘personali’ nasce dalla volontà di dare allo spettatore la possibilità di osservare un percorso artistico in divenire, nelle sue diverse manifestazioni». Questa modalità risulta particolarmente efficace per il progetto ideato da Teatro dei Borgia e quasi interamente messo in scena a Terreni Creativi: La città dei Miti. La trilogia prende forma dal tentativo di avvicinare il mondo del mito alla realtà contemporanea più problematica e attuale, mettendo in atto una riscrittura radicale dell’immaginario greco antico: le figure eroiche e mitiche si combinano con quelle di individui emarginati e derelitti.
In Eracle, l’invisibile – primo capitolo del trittico, insieme a Medea per strada e a Filottete dimenticato – il protagonista della tragedia euripidea si nasconde dietro le fattezze di un uomo qualunque. Il pubblico lo incontra nella mensa di via degli Orti di Albenga: mentre si occupa della cottura del pane, il cui profumo si diffonde per tutto lo spazio, il nostro Eracle – interpretato da Christian Di Domenico – inizia a raccontare sé stesso e le varie vicissitudini della sua vita, una vita come tante. Instaura fin da subito un dialogo con gli spettatori, ripercorrendo le tappe che lo hanno portato a realizzare i suoi sogni: diventare professore di italiano e latino e mettere su famiglia a Milano, la città in cui è nato. Il linguaggio di questo Eracle quotidiano è costituito da un vero e proprio pastiche: espressioni colorite e modi di dire milanesi si alternano a citazioni di varia provenienza, manifestazioni della compresenza di una cultura letteraria e di una popolare (i versi di Cesare Zavattini e di William Blake sono intervallati da frasi celebri di Bruce Lee e di Muhammad Ali). Questa commistione richiama efficacemente i due aspetti significativi della sua formazione: da un lato l’infanzia vissuta nelle zone popolari e periferiche della città di Milano, dall’altro gli studi universitari e la formazione umanistica. L’Eracle del Teatro dei Borgia si racconta come un individuo qualsiasi, forse anche troppo eccezionale: perfetto padre di famiglia e professore irreprensibile amato da tutti gli studenti, per i quali riesce sempre a trovare il consiglio giusto. La figura che si delinea sfiora l’inverosimiglianza, risultando per lo spettatore, a tratti, oltre il limite del possibile. Ma l’uomo rappresentato è in fin dei conti Eracle, e questo eccesso si giustifica anche in virtù del richiamo alla tragedia greca. È proprio il ribaltamento del destino, il passaggio dell’eroe dalla buona alla cattiva sorte il fulcro costitutivo del tragico. Ed è dopo aver raggiungo il culmine della realizzazione, che la situazione precipita: il professore amato da tutti viene falsamente accusato di molestie; allontanato dalla scuola, si ritrova così disoccupato.
Il fluire continuo del racconto è accompagnato dalla pulizia della cucina e dalla preparazione di sacchetti contenenti il cibo necessario per due pasti giornalieri. Pian piano il pubblico scopre la condizione attuale in cui si ritrova l’uomo che ha davanti: ormai è costretto a vivere per strada, a mangiare alle mense della Caritas. Il declino della vita dell’eroe è ormai giunto al suo termine ed Eracle non può che compiere il proprio destino tragico: la notte di Natale entra nella casa dove vivono la moglie e la figlia, sigilla le finestre e apre il gas, lasciando che l’aria ne diventi satura. Si risveglia in ospedale, il resto della famiglia non è sopravvissuto. Dopo aver condiviso la sua storia, Eracle decide di spartire il pane cucinato nel corso dello spettacolo: non possiamo così non sentirci partecipi di quanto abbiamo sentito. E così, l’accettare il pezzo di pane donatoci diventa simbolo del nostro voler accogliere l’incontro e lo scambio umano che ci è stato offerto.
La multidisciplinarietà e l’ibridazione tra i linguaggi che caratterizzano Terreni Creativi risulta evidente anche nella scelta di ospitare Something Stupid, di e con Daniele Natali e Fausto Paravidino. La sfida posta da questo «non-spettacolo, non-stand-up, non-conferenza» è ardua: Natali e Paravidino non vogliono mettere in scena qualcosa, ma vogliono invece parlare direttamente con gli spettatori. Come dichiarano in apertura dello spettacolo i due attori, la chiusura delle sale teatrali, nei mesi più duri della pandemia, li ha spinti inevitabilmente a ripensare i limiti e i confini di questa forma d’arte. «Il teatro è quindi necessario ma sacrificabile» dice Paravidino provocatoriamente. La riapertura non ha portato a nessun tipo di cambiamento effettivo nel modo di realizzarlo, tutto è ripartito come se niente in mezzo fosse accaduto davvero. Ed è proprio per questo che Something Stupid si pone come un tentativo di dare forma a ciò che, secondo i due attori, in fondo è il senso del teatro: persone, forse un po’ «matte», che si radunano nello stesso luogo e cercano di trovare un modo per comunicare tra loro.
Natali e Paravidino dichiarano continuamente la mancata costruzione di questo “non-spettacolo”, sottolineando la scelta di portare sul palco qualcosa che non necessariamente riuscirà nell’intento, e soprattutto che potrebbe anche fallire: alla fine Something Stupid è solo una «cosa», come dichiarano i due attori.
La continua manifestazione della volontà di instaurare un dialogo diventa quasi una sorta di ritornello. Questa loro intenzione però è vittima, a tratti, di una sorta di autosabotaggio: lasciano aperti pochi momenti di dialogo reale, chiedono sì l’intervento del pubblico, ma tendono a riempire il tempo con autonome suggestioni. I momenti in cui però davvero il confronto si attua sono quelli in grado di sollecitare la riflessione, e spesso anche l’ilarità, nello spettatore. La questione relativa alla necessità di accordarsi sul linguaggio, sul senso delle parole, riesce a creare un reale momento di contatto pubblico-palcoscenico. Il botta e risposta che ne deriva, oltre a risultare estremamente comico, spinge attori e spettatori a ragionare sull’arbitrarietà delle convenzioni con cui ciascuno ha a che fare quotidianamente, spesso senza neanche accorgersene. In ogni caso, la sfida messa in atto da Something Stupid può dirsi vinta: attraverso la forma del dialogo diretto con il pubblico, oppure grazie all’esposizione diretta e senza filtri di riflessioni e suggestioni, il lavoro di Natali e Paravidino riesce a sollecitare attivamente l’interrogarsi degli spettatori, costretti a rimettere in discussione alcune delle proprie convinzioni più salde.
Terreni Creativi si riconferma anche quest’anno una realtà caratterizzata dalla capacità di accogliere ogni tipologia di spettatore, proponendogli una scelta variegata e multidisciplinare, e riuscendo, anche grazie alla cura riservata anche ai momenti di convivialità e alla grande accoglienza, a farlo sentire come a casa tra le serre di Albenga.
Alice Strazzi
in copertina: foto ufficio stampa
ERACLE, L’INVISIBILE
da Euripide
con Christian Di Domenico
parole di Fabrizio Sinisi e Christian Di Domenico
consulenza sociologica Domenico Bizzarro
spazio scenico Filippo Sarcinelli
costumi Giuseppe Avallone ed Elena Cotugno
ideazione e regia Gianpiero Alighiero Borgia
SOMETHING STUPID
una cosa di e con Daniele Natali e Fausto Paravidino
produzione NIM – Neuroni In Movimento