Chissà se gli abitanti di Bastia, di Cisano sul Neva, degli altri paesi che punteggiano la provincia di Savona si sono sentiti a disagio, seduti su quelle poltrone rosse opportunamente distanziate. Chissà se hanno percepito un blando imbarazzo, mentre nello spiazzo dell’azienda agricola Bio Vio di Albenga i Maniaci d’Amore affabulavano intorno agli splendori e alle miserie del paesino di Sciazzusazzu di Sopra, località inesistente ma potenzialmente sovrapponibile alle realtà territoriali che ben conoscevano. Forse le risate fragorose che hanno accompagnato il racconto delle gesta di Teresa e della madre stavano celando un’impalpabile turbamento, forse a farsi strada era la consapevolezza che, al centro del palcoscenico, accanto a Francesco d’Amore e Luciana Maniaci, stessero in un certo senso anche loro. E in fondo non è questa l’essenza della commedia: sbugiardare le piccole virtù, i tronfi eroismi, e farne uno sberleffo, una sonora pernacchia? Allora il riso si fa segno di partecipazione, laccio uditivo con cui due comunità – quella cittadina e quella artistica – manifestano la propria coappartenenza: accorciando la distanza tra scena e platea, rendendo una volta ancora evidente quanto il teatro possa essere lo specchio veritiero di un tempo e di un luogo. E la cura delle loro patologie.
Ad Albenga e nelle sue frazioni, le due comunità si sono sempre incontrate e riconosciute attorno a un tavolo, sotto le volte di vetro delle serre che costellano la riviera di ponente. Attori e spettatori, operatori e critici, per dieci anni hanno condiviso pasti e chiacchiere, occupando con il teatro e la danza prima, e con cibo e vino dopo, gli spazi della produzione agroalimentare e florovivaistica d’eccellenza: un connubio virtuoso che è sembrato fin dalla sua origine realizzare concretamente quel “lavoro sul territorio” spesso demandato – in aggiunta ad altre missioni, impervie e ciò nonostante perseguite – alle compagnie teatrali di tutta Italia, e che qui si è declinato in una lungimirante triangolazione tra impresa privata, cittadinanza e artisti. Terreni Creativi – il festival che Kronoteatro realizza ogni estate come punto focale di una disseminazione, costante lungo l’anno, di azioni e proposte – sembrava quest’anno destinato a essere rinviato, o addirittura annullato, proprio a causa della sua identità compenetrante.
Eppure è scampato al vuoto e al silenzio, alla minaccia dell’oblio che la gestione dell’emergenza sanitaria sembrava formulare – e in parte sembra promettere tuttora – nei confronti di cartelloni e rassegne: e Scampati, sopravvissuti, è non a caso il claim scelto da Maurizio Sguotti, Tommaso Bianco e Alex Nesti in un’edizione che individua nella forza e nella resistenza il proprio fulcro comunicativo. Un pugile campeggia così sul manifesto dedicato al festival, creazione di Nicolò Puppo: gracile, già ammaccato dai colpi subiti, comunque sorridente e fiero. Ecco che scàmpati si rivela anche nel suo senso dialettale di invito al divertimento, allo svago: alla possibilità di rispondere con una risata ai pugni del tempo, di irridere l’avversario e improvvisare una nuova tattica per vincere l’incontro. E l’edizione 2020 del festival potrà forse avere subito un diretto velenoso nella cancellazione delle cene in serra, ma infine è riuscita a vincere l’incontro: un’azienda di Bastia d’Albenga è stata una volta ancora il ring per proposte di prosa, di danza, per gli interventi musicali di Luigi Ranghino e dei Magical Faryds, per uno spettacolo significativo come Calcinculo di Babilonia Teatri (qui una bella recensione di Simone Nebbia): soprattutto il luogo dove un pubblico coeso, ancora entusiasta, si è ritrovato e ha riscoperto, insieme al teatro, un senso finalmente gioioso di coesione.
Simona Bertozzi e Manfredi Perego hanno aperto le serate della rassegna con due “soli” coreutici di contrapposta tessitura. La coreografa e danzatrice bolognese ha disegnato con Porpora – progetto realizzato per questa edizione del festival, quasi uno studio della successiva creazione Tra le linee il cui debutto è previsto a ottobre – un paesaggio sfumato, un acquarello soffuso di posture e variazioni d’equilibrio: la pittura è sì reminiscenza gestuale, sterminato bacino iconografico annunciato dal titolo, ma soprattutto tecnica di composizione, modalità di tratteggiare con cura millimetrica un ambiente e di costellarlo con figure, vite, pensiero. Sulla musica di Brian Eno e di Gustav Mahler, la danza cresce progressivamente, abita il palcoscenico in un crescendo fisico e ritmico: prima inginocchiata a terra, poi in piedi, Bertozzi disarticola le braccia spezzandone il moto in singole unità, per poi animare il corpo e plasmare lo spazio in una fluida successione, che coinvolge le gambe e si scioglie in rotazioni, in fuori asse. Le pause, nella danza di Bertozzi, sono silenzi di una sinfonia, attimi in cui l’immobilità si fa significante e latrice di nuove possibilità; al di sopra del tappeto sonoro, è la sua voce registrata a scandire i lemmi – “limite”, “respiro”, “porosità” – di cui il gesto è traduzione e riverbero. La galassia immaginifica coinvolge ora Beato Angelico, quella commossa coreografia di braccia e mani che il frate dipinse nell’Annunciazione, ora George Floyd e la sua morte per asfissia: ma i riferimenti deflagrano sulla scena in un’esplosione sempre silente, sommessa. Accanto alla sua forte identità autoriale, Bertozzi dispiega una altrettanto evidente “qualità della presenza”: l’essenza della sua danza si manifesta attraverso la sua peculiarità sottrattiva, il suo è un gesto che, della virtù dell’humilitas, riesce a squadernare i significati più alti.
La danza di Manfredi Perego si impone invece allo sguardo per la sua cifra ctonia, ferina: non c’è qui rarefazione, quanto un lineare e organico sviluppo di potenza, una conquista di ampiezza e di forze che, come in una linea evolutiva, procede inesorabile e conosce tuttavia strappi e improvvise cesure. Primitiva, la creazione che Perego ha presentato su musiche di Paolo Codognola, recupera un riconoscibile immaginario di movenze protoumane, ancora animalesche ma già proiettate verso un futuro di verticalità, di dominio e controllo sulle istanze più remote del corpo. Così, ai primi istanti in cui il danzatore e coreografo si muove appoggiando piedi e palmi delle mani, agito da un battito accelerante, seguono i salti, gli slanci, le dilatazioni del torace, l’apertura delle braccia per fendere aria e spazio. Con qualche eccesso didascalico, Perego edifica una costruzione ciclica, in cui alla reiterazione delle soluzioni gestuali si accompagna un recupero del passato collettivo e individuale, intimo e di specie: un percorso che affonda nella corporeità e di essa mostra gli anfratti rimossi, pre-culturali.
La cifra, solo apparentemente ancipite, di leggerezza e impegno, di contagioso spasso e attenzione alle istanze sociali propugnata da Terreni Creativi trova piena corrispondenza scenica con Siede la terra di Maniaci d’Amore, lo spettacolo – dal titolo di dantesca memoria – a cui abbiamo fatto cenno in apertura e che la compagnia ha realizzato, in coproduzione con Kronoteatro, come progetto speciale per questa edizione del festival. Sotto la bislacca vicenda dell’immaginario paese di Sciazzusazzu di Sopra – i cui abitanti, è bene ricordarlo, godono di una beltà esteriore del tutto ignota ai vicini del borgo inferiore – agisce infatti una satira di costume corrosiva, efficace proprio perché immune da qualsiasi pretesa moralizzatrice. Si ride, e molto, a osservare Teresa (un’incisiva Luciana Maniaci in abito rosso e occhi bistrati) e la mamma (Francesco d’Amore, autore di una performance en travesti mai macchiettistica, in perfetto equilibrio tra misura e guizzo) mentre raccontano una bizzarra trama di pettegolezzi a sfondo sessuale e matrimoni riparatori, di surreali traumi del passato e improbabili risoluzioni. Davanti a un muro bianco sul quale le bombolette spray scriveranno prima un volgare sospetto che attenta al buon nome di Teresa, poi una messe di glosse, di variazioni semantiche, di sillogismi paradossalmente illogici, il duo si rivolge direttamente alla platea, in un formato che meticcia il cabaret con gli script di tanta tv-verità, forti di quel gossip che è al contempo espediente narrativo e oggetto stesso del discorso. Ma il chiacchiericcio che la brillante drammaturgia, labirintica nel suo procedere per salti temporali e accumulazioni, fa emergere tanto a Sciazzusazzu quanto ad Albenga è quello di un paese piccolo come tanti e grande come l’Italia: dove le sovvenzioni dell’Unione Europea cadono a pioggia e chiunque cerca di approfittarne, dove il victim blaming ferisce più della violenza, e le mode comunicative cercano di ammantare di modernità linguistica – dallo storytelling all’hype – dispositivi e processi tipici della convivenza in qualsiasi cittadina. Con sagacia, d’Amore e Maniaci illuminano i vizi di un piccolo mondo: eppure non c’è manicheismo o presunzione nelle loro parole, quanto una divertita comprensione per le innocue bassezze e gli inciampi, le passioni e i goffi amori di una platea umana unica, e ciò nonostante identica a tutte le altre.
Alessandro Iachino
PORPORA
appunti d’azione coreografica
di e con Simona Bertozzi
musiche Brian Eno, Gustav Mahler
organizzazione Monica Aranzi
ufficio stampa Michele Pascarella
produzione Nexus 2020
con il contributo di Mibact – Regione Emilia Romagna
con il sostegno di Almastudios – Bologna
progetto appositamente realizzato per Terreni Creativi 2020
PRIMITIVA
coreografie/danza Manfredi Perego
musiche Paolo Codognola
luci Giovanni Garbo
produzione TIR Danza
in coproduzione con Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza
in collaborazione con Centro Nazionale di Produzione della Danza Scenario Pubblico CZD, Teatro delle Briciole/Solares Fondazione delle Arti, MP.ideograms, ResiDance XL, Artista Associato presso il Centro Nazionale di Produzione della Danza Scenario Pubblico / CZD
SIEDE LA TERRA
di e con Francesco d’Amore e Luciana Maniaci
oggetti di scena e costumi Francesca Marsella
disegno luci Alex Nesti
produzione Maniaci d’Amore / Kronoteatro
progetto appositamente realizzato per Terreni Creativi 2020