Quando Titilayo Adebayo fa il suo ingresso, dalla quinta destra più vicina al proscenio, le luci nella sala del Teatro Manzoni sono ancora accese. Percorre solo pochi passi, quelli necessari ad avvicinarsi al primo dei sette sedili da pianoforte sistemati su due file prossime al boccascena, prima che in platea dilaghi la voce di Joni Mitchell: my old man, he’s a dancer in the dark. In piedi, senza guadagnare il centro del palco, Adebayo si abbandona alla melodia, quasi volesse danzare soltanto per sé stessa: le braccia che percorrono ampi cerchi davanti al viso, i palmi delle mani rivolti verso la platea, i piedi che si alzano al ritmo di quella gratitudine, di quella poesia di meraviglia. È con un gospel, con una preghiera di ringraziamento — he’s my sunshine in the morning, he’s my fireworks at the end of the day — che si apre The Köln Concert, la coreografia firmata da Trajal Harrell per i danzatori dello Schauspielhaus Zürich Dance Ensemble, e tutto, in questa gestualità così naturale, così scevra da qualsiasi virtuosismo, sembra farsi latore di una trascendenza, rivelare un’alterità, una stratificazione di ricordi. Vite differenti e dimenticate, o esistenze soltanto immaginate, si affastellano al di sopra dei corpi che Harrell mette in scena, così come, sopra la pelle dei danzatori, si accostano i tessuti in un layering audace e bislacco: un abito a fiori è per Adebayo un improbabile grembiule, che giustapposto a una gonna e una t-shirt sembra scompigliare i ruoli, mescolando sogni propri e desideri altrui. Mentre la voce di Mitchell incanta, confidandoci il proprio indimenticabile languore per un fiume ghiacciato sul quale pattinare — I wish I had a river I could skate away onThe Köln Concert affianca quadri coreografici a canzoni, e in questa luminosa, bizzarra epifania condensa le cifre che hanno reso Harrell un protagonista della scena contemporanea.

foto: Reto Schmid

Presentato come evento inaugurale della pregevole Stagione Danza dei Teatri di Pistoia, curata da Lisa Cantini, The Köln Concert di Trajal Harrell è la commovente summa di un percorso ventennale, insignito quest’anno del Leone d’Argento della Biennale di Venezia per performance che — leggiamo nella motivazione del premio, firmata da Wayne McGregor — «sono come tanti oggetti sensibili, ibridi e gioiosi che attingono in egual misura alla moda, alla cultura pop e agli artisti d’avanguardia». Ed è anche grazie a questo riconoscimento che lo spettacolo, già visto a Romaeuropa e alla Triennale di Milano, torna adesso in Italia per una breve tournée; l’imprevista assenza del coreografo, bloccato da un’indisposizione, obbliga tuttavia ad aprire la data pistoiese con la lettura di un testo nel quale, oltre al dispiacere per l’impossibilità a danzare insieme al suo ensemble, Harrell confida un’amara consapevolezza: «I know I have less performances in front of me than behind me», «so di avere meno spettacoli davanti a me che alle mie spalle». Ecco che, nell’irripetibilità di una recita potenzialmente indebolita, The Köln Concert trova invece una dimensione ulteriore, di nostalgia e di celebrazione per ciò che abbiamo perduto, per chi abbiamo lasciato alle nostre spalle. Dei sette sedili uno resterà vuoto, tangibile segno di un’insostituibile mancanza e al contempo di compresenza, di vicinanza; sugli altri, oltre ad Adebayo, si siederanno gli altrettanto eccezionali Maria Ferreira Silva, Rob Fordeyn, Nasheeka Netter, Songhay Toldon, Ondrej Vidlar. River li vede muovere le braccia come remi, immersi nel flusso musicale, mentre le gambe si sollevano alternativamente e i corpi oscillano nell’intima trance scaturita dalla voce di Mitchell. Pellicce, collant di pizzo, ampie gonne o camicie decorate — lo styling, così come le scene e il montaggio musicale, sono opera dello stesso Harrell — completano il vibrante paesaggio di un’umanità eccentrica, di outsider, di corpi differenti colti in una quotidianità di posture sottratte a discipline e ambiti altri, e qui cucite in un tessuto coreografico debitore della cultura delle ballroom. Che proprio il voguing costituisca per Harrell una matrice di gestualità e prossemiche, è soprattutto evidente quando, riconoscibili e attese, si impongono nello spazio sonoro le prime note di Both Sides, Now: quello struggente inno agli abissi e alle vette di un’esistenza straordinaria e comune coincide per Harrell con la possibilità di disegnare sul palco un catwalk, una passerella sulla quale, uno alla volta, sfilano gli interpreti come mannequin di una moda così simile alla vita. Elementi gestuali e coreografici ben identificabili — le linee ortogonali sulle quali i danzatori percorrono ieratici la distanza tra il fondo del palco e il proscenio, oppure l’incedere in sospensione sulla mezza punta, al di sotto della quale ci immaginiamo tacchi vertiginosi — sono qui un mero elemento formale di una più profonda adesione a quell’afflato di orgoglio, di dignità e rispetto che animava le ball houses degli anni Settanta e Ottanta. Nel genuino, semplice esporsi dei corpi, e di quei costumi che sembrano raccontarne le anime più che vestirli, Harrell ci regala un monumentale, struggente atto d’amore per il mestiere dell’interprete, dell’attore, del danzatore.

foto: Reto Schmid

Ma The Köln Concert è anche, e soprattutto, un omaggio all’arte di Keith Jarrett, e all’omonimo, indimenticabile concerto che il jazzista registrò nel 1975, improvvisando su un pianoforte più piccolo — e per giunta male accordato — di quel Bösendorfer che gli era stato promesso dalla Köln Opera House. Già il celebre aneddoto, con quella sua capacità di condensare una vicenda di genialità e resilienza, sembra costituire una premessa di senso alla coreografia di Harrell, come se gli inciampi e le ferite, i traumi e gli squarci di luce che accompagnano ogni creazione artistica fossero rilevanti quanto gli esiti, e i processi produttivi potessero rivelare — nei compromessi, negli incontri occasionali, nelle improvvisazioni con cui reagiamo agli incidenti — una bellezza spesso celata. Così, al termine della lunga introduzione affidata alle ballad di Joni Mitchell, il concerto di Jarrett è la traccia sulla quale si susseguono sequenze in cui il gruppo è silenziosa cassa di risonanza dell’estro del singolo — della sua fragilità, così come del suo entusiasmo — e la gestualità solista è accolta, osservata, riflessa dalla stasi dell’ensemble. A turno, gli interpreti, adesso abbigliati in tuniche nere dalle fogge differenti, animano il proscenio con sequenze che sembrano avere assimilato ogni stile, ogni memoria — la danza libera, la postmodern, la tecnica Graham — per restituircene un riverbero di spontanea immediatezza, venato da un soffuso umorismo. Brevi istanti di immobilità, mutuati dalla tradizione dei tableaux vivants, interrompono quel girotondo col quale ogni danzatore si offre, al centro del proscenio, allo sguardo del pubblico: ciascuno ci dona un lacerto danzato, da ciascuno emerge una verità del corpo individuale e divertita — un gluteo fa capolino dalla tunica, un volto è a tratti nascosto da una voluminosa capigliatura — e la pelle è ora esposta con ironia e e gioia. D’altro canto anche Jarrett, come Glenn Gould nelle Variazioni Goldberg, spezzò il rigore acustico con mugolii e sospiri, costellando di impronte organiche la partitura improvvisata; e come per le Variazioni Goldberg, le cui leggendarie mise-en-scène coreografiche si stagliano nel panorama della danza occidentale, anche The Köln Concert ci regala una pietra miliare della traduzione in danza della musica — o della vita, che così bene si confonde con entrambe.

Alessandro Iachino


immagine di copertina: foto di Reto Schmid

THE KÖLN CONCERT
di Trajal Harrell / Zürich Dance Ensemble
musica Keith Jarrett, Joni Mitchell
usata in accordo con ECM Records
con Titilayo Adebayo, Maria Ferreira Silva, Trajal Harrell, Rob Fordeyn, Nasheeka Netter, Songhay Toldon, Ondrej Vidlar
coreografia, scene, colonna sonora, costumi Trajal Harrell
luci Sylvain Rausa
drammaturgia Katinka Deecke
assistente alla produzione Camille Roduit, Maja Renn
assistente alla scenografia Ann-Kathrin Bernstetter, Natascha Leonie Simons
assistenti ai costumi Ulf Brauner, Miriam Schliehe
direttore di scena Michael Durrer
stagista di produzione Moritz Lienhard
stagista di scenografia Reina Guyer
direttore delle prove Steven Thompson
produzione Schauspielhaus Zürich