«Perché Lulu?».
Il testo è appena cominciato, non siamo nemmeno a metà pagina. Lulu è il protagonista. L’autrice ci chiede «perché Lulu?». Anzi, ci dice proprio che quando comincerà a parlarci di Lulu noi «di sicuro» ci chiederemo «perché Lulu?». Invece potremmo chiederci: perché questa domanda? Perché presentare il centro stesso del racconto in una condizione di incertezza, con un’interrogazione che sfalda i confini del personaggio?
C’è qualcosa di importante, però, prima di questa domanda. In pochissime battute il testo fornisce alcune informazioni fondamentali: Lulu è un giovane, viene da lontano, appartiene a un’altra epoca, quella del 1989, e vorrebbe poter nuotare controcorrente. Vorrebbe fare come le talpe, «smuovere la terra soltanto per trovarsi un pezzo di posto che non sia governato da uomini in cravatta o tipi con il manganello». Lulu è un adolescente. Ovvero, è il continuo sfaldarsi in sé stesso, è un confine labile, è un punto interrogativo. Poco importa che venga dal 1989 e che abiti in un palazzone sovietico nella DDR, al di là del muro. Lulu è un adolescente, è come e dove siamo stati tutti. Appartiene, sì, a un’altra epoca, ma un’epoca «che sarebbe comunque adesso».

The Lulu Projekt in una lettura scenica diretta da Gérard Watkins (Foto: Emile Zeizig)

Magali Mougel, drammaturga e ed ex docente presso l’Università di Strasburgo, ha scritto una prima versione di questo testo (edito in Francia da Espace 34), grazie a una commissione del Centre Dramatique Nationale di Montluçon, nel quadro di un progetto che mirava ad associare il lavoro di un autore a quello di una classe di liceo ad indirizzo teatrale. Si trattava quindi di proporre agli studenti un testo inedito, di inventare una scrittura fatta veramente per loro. Da qui la necessità dell’autrice di indagare una dimensione vicina a loro e vicina a tutti, un poco distanziata nello spazio e nel tempo, ma ancora viva nella memoria anche di chi non ha vissuto quel momento prima della caduta del muro. Di qui anche l’impulso a lavorare con il personaggio collettivo del coro, a chiedersi «cos’è che fa sì che ad un certo punto bisogna essere assolutamente 28 affinché questa storia possa essere raccontata?». Con un gioco di scrittura abile e mimetico, Magali Mougel ci fa prendere la rincorsa verso il passato del nostro futuro attraverso una narrazione sincopata che mette il lettore (o lo spettatore) al centro della storia. Il coro interviene lungo il testo, non già in strutture inquadrate di parodo e stasimo, ma insinuandosi fluidamente tra le battute a raccontare quello che succede, come un narratore onnisciente, come il nostro occhio di lettori. Passando sottilmente dall’uso narrativo della terza persona singolare alla molto più diretta seconda persona singolare, il coro descrive Lulu e insieme ci chiama a un’identificazione immediata.

Valentina Terechkova, la prima donna ad andare nello spazio

Lulu ha una sorella calma e responsabile, docile come il cagnolino che vorrebbe essere, uno specchio liscio in cui Lulu si rivede pieno di crepe. La loro madre è una di quelle che non fa sconti, non ha mezzi termini, non si pone il problema di cosa possa fare il linguaggio nella testa di un adolescente. «È quella che è e fa quello che può: non è certo la peggiore, ma ogni tanto è pessima». Ai suoi occhi Lulu è la rovina della famiglia, la sorella invece è la destinataria dell’insistente vezzeggiativo “mon coeur”.
Lulu ha 18 anni e sa di essere all’interno di una macchina statale che ha già deciso cosa potrà e dovrà fare del suo futuro. Solo che non ci sta. Porta una giacca di pelle, ascolta musica punk e decide di non passare apposta un test scolastico che lo avrebbe destinato alla scuola militare. Sogna di essere una star del punk, oppure un astronauta, una star della nazione. Vorrebbe fare come Valentina Terechkova: da operaio diventare astronauta. Lavora al macello dove sventra polli e conigli, non sembra un ragazzo sveglio, non è di bell’aspetto, ha due occhi piccoli come quelli delle talpe. Ha un migliore amico, Moritz. Moritz ha una malattia agli occhi che lo sta portando velocemente verso la completa cecità. Lulu e Moritz passano le ore sul tetto del loro palazzone sovietico circondato da inesorabili campi di colza bevendo jägermeister, cercando di aggiungere a quel panorama e alla cecità una vista in più. Fuggono in sogni in cui extraterrestri li salvano da quel deserto per ricominciare tutto da zero. Ma Moritz non ce la farà, non reggerà tanto.
«It’s better to burn out than to fade away». Neil Young impazza nelle orecchie di Lulu in quel primo pomeriggio passato con la ragazza appena conosciuta, «bella come i cipressi descritti nei libri». Non si sa da dove venga, né come sia comparsa. Mentre lei lo bacia per la prima volta My, my, Hey, hey gli risuona in testa come se la stessero suonando apposta per loro. Mentre insieme a lei va a cercare Moritz per mostrargli la bellezza prima che non possa più vederla, Lulu corre sotto la pioggia e non corre più da solo. Ma Moritz non ha retto. Moritz è caduto dal loro tetto, là in basso dove ancora non ci sono fiori gialli di colza ma asfalto. Moritz quel mondo non lo voleva più guardare nemmeno prima di diventare cieco. Da quel momento Lulu non sale più sul tetto. Non è diventato un astronauta ma ha cambiato lavoro, sta in un vivaio e sente che gli alberi possono arrivare a toccare le nuvole. E lei, «lei gli ha insegnato tutto».


Da The Lulu Projekt

– Sei triste?
– Credo di sì.
– Nel mio paese la tristezza non esiste.
– Non piangi quando muore uno come Moritz?
– Non è una cosa da niente vedere così il corpo di Moritz disintegrato nel sangue, ma nel mio paese non si piange.
– Sei New Age?
– Mi fa schifo il mondo.
– Oh.
– Togliti quei culi di bicchiere.
– Non posso.
– Fallo.
– Vedi?
– Non so, come deve essere? Bello o brutto?
– Sta a te dirlo.
– Siete tu e il cielo con le nuvole, è come se il vento mi fosse appena entrato in bocca. Guarda come soffia e ansima nelle mie retine, non vedo nulla ma c’è una pioggia che mi perfora la testa, merda com’è bella la macchia del tuo viso sulle mie retine.
– Eh /
– E merda /
– Ma che diamine fai /
Se Kurt Cobain fosse esistito in questo mondo, avrebbe detto: “Ti ringrazio dalla voragine infuocata del mio stomaco nauseato, per l’interesse che porti alla mia persona”.
– Sei un ragazzino, troppo imprevedibile e troppo instabile.
– Francamente, è meglio bruciare che spegnersi poco a poco, no?
– E allora adesso ti bacio e sarà come dar fuoco a tutto. Lulu cecato, ti andrebbe di andare a vedere le stelle più da vicino?
– Bisognerebbe vederci.
– Non vedrai nulla, ma t’inventerai un’aurora boreale tutta per te, con la Via Lattea che danza nel vento.
– Aspetta, prima lascio un messaggio.
Se mai mi cercassero da lassù, che si sappia dove sto.
Moritz, amico mio, vieni! Lì dove andiamo, basta colza, i pianeti danzano nel vento e questo vale oro!


Il testo, diviso in 14 brevi episodi più un prologo e un epilogo, non ha indicazioni dei personaggi prima delle battute, i nomi vengono elencati solamente all’inizio di ogni episodio, aumentando – e qui davvero solo per il lettore, più che per lo spettatore – la sensazione di trovarsi dentro, proprio dentro la visione, la testa, gli occhi, la percezione del giovane Lulu. Così, da una prima sensazione di distacco nei confronti di questo individuo un po’ patetico, ci si convince che persino i suoi sogni al limite del paranormale non siano poi così assurdi, o almeno non più dei campi di colza che lo circondano. Per tutti c’è un mondo fuori che facilmente toglie qualcosa dentro. Come restituire questa identificazione? Lo stile di Magali Mougel è secco, fendente, scarno come lo sanno essere gli scambi di frasi tra gli adolescenti. Ridotti all’osso. Leggendolo non si ha l’impressione che possa averlo scritto un adulto rifacendosi “alla maniera di”, complici anche i tanti riferimenti alla scena musicale underground degli anni ’80 e ’90. Sex Pistols, Clash, Neil Young, Kurt Cobain. Nomi che suonano persino un po’ retro, come se ad averci pensato fosse stato non un adolescente del 2017 ma l’adolescente che sta dentro l’autrice, la sua ancora schietta e autentica parte in lotta col mondo. Sono nomi che parlano a tutti, così come lo fa il modo in cui viene perfettamente resa quell’attitudine a intendere le canzoni come colonna sonora universale e personalissima di istanti di vita fondamentali.

The Lulu Projekt nella versione di Ring Théâtre (Foto: Guillaume Fulconis)

Siamo nella Germania dell’est dell’89, ormai ci sono alcuni adulti che nemmeno erano nati a quel tempo. Abbiamo dimenticato i blocchi contrapposti, la guerra fredda, la minaccia, non abbiamo conosciuto la brama di un tesoro di marche, brand e possibilità che stavano dall’altra parte di un muro. Allora perché andare a scavare in quel periodo? Perché descrivere l’adolescenza in un altrove spazio-temporale? I motivi sono diversi, messi in luce da Mougel stessa in alcune interviste: reinterrogare quel periodo storico, l’inesorabile vento di cambiamento che ha iniziato a soffiare dopo il crollo dell’Unione Sovietica, mettere a confronto un’adolescenza che cresce sotto il blocco sovietico con un’altra che respira nel nostro oggi dove tutto sembra più facile e accessibile. Ma non è “solo” questo. C’è il contesto culturale, la culla del punk che lì era nato e lì probabilmente è restato come l’ultimo dei movimenti giovanili vissuti con furore, smania, assoluta identificazione e nessuna condizione. “No future for you” sbraitava Johnny Rotten. No future for you but not for us recita il sottotitolo di The Lulu Projekt. Quale futuro resta? A chi resta? Rivolte e rivoluzioni si sono susseguite senza che mai davvero cambiasse la condizione di un giovane adolescente. E se Lulu vuole ribellarsi contro una società che ha già deciso che ne sarà della sua vita e del suo futuro, se sa che i suoi coetanei verranno prima o poi schiacciati dal grande rullo della storia, uno dopo l’altro, se pensa che solo gli alieni potranno salvarlo da quella condizione, possiamo noi dire altrimenti? O abbiamo anche noi questa stessa, identica prospettiva?
Nel confrontarsi con gli alunni per i quali il testo è stato scritto, Magali Mougel aveva riscontrato una preoccupazione che li assillava più di tutte le altre: cosa potremo fare in questo mondo? Con che salsa verremo mangiati?

Siamo di fronte a un testo autentico, che scatena nell’immaginazione la voglia di quel furore psichedelico e sovversivo dell’adolescenza, della sua sostanza romantica e inadeguata. Una messa in scena di The Lulu Projekt dovrebbe prestare attenzione a mantenere intatta l’immediatezza di questo esatto ritratto di un adolescente. Senza nemmeno accorgersene viene toccato ogni aspetto: famiglia, amicizia, frustrazione, depressione, musica, sbronze, scoperta dell’amore, scontro con la morte. Senza retorica, senza manierismo. Il confine labile di quell’età. Il confine labile di un muro. In bilico sul confine di un mutamento che ha visto soffiare dall’ovest all’est un vento contraddittorio.

Francesca Di Fazio


Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto gratuitamente con una mail a [email protected]